di Fabio Viglione
L’agenda politica del Governo, in materia di riforme sulla giustizia, sembra essersi concentrata sul tema della prescrizione dei reati. In realtà, il “contratto” tra le due forze politiche che compongono l’Esecutivo non sembra sufficientemente specifico sul punto.
In ogni caso, la proposta di sostanziale abolizione della prescrizione, a prescindere dalla tecnica legislativa utilizzata e utilizzabile (emendamento al decreto legge - originariamente noto come - “spazzacorrotti”), si porrebbe in aperto contrasto con il principio costituzionale della “ragionevole durata del processo” (art.111) quale inderogabile approdo di civiltà giuridica.
Se da una parte la prescrizione rappresenta in ogni caso un fallimento per l’intero sistema, la “posta in gioco” è troppo delicata per consegnarsi a demagogiche fughe in avanti sul terreno di diritti e garanzie insopprimibili.
Il rimedio proposto sarebbe certamente peggiore del male. Non si può pensare di “fare giustizia” facendo durare un processo penale all’infinito pur di giungere ad un accertamento di merito. Gli stentorei proclami sulla eliminazione della prescrizione per dare un senso alla certezza della pena ed alla utilità del processo partono poi da un ulteriore presupposto erroneo: la presunzione di colpevolezza.
Negli spotabilmente veicolati a sostegno della annunciata proposta di modifica si propone una perfetta sovrapposizione tra l’imputato ed il colpevole, “graziato dalla prescrizione”. In barba al principio di non colpevolezza stabilito dall’art. 27 della Costituzione. Così, inevitabilmente, si finisce per far passare la prescrizione come un pernicioso cavillo in grado di mettere in salvo il colpevole dalla punizione.
Ma così non è.
Prima che colpevoli o innocenti (e la non colpevolezza si presume fino alla condanna definitiva), si è cittadini di uno Stato che ha il dovere di garantire che il processo si celebri in tempi ragionevoli. Mi chiedo, a quali principi si ispirerebbe un sistema nel quale il cittadino sarebbe chiamato ad affrontare un processo infinito, un processo senza tempo? Oltre che sul piano teorico, sul piano cioè di principi giuridici consolidati in uno stato di diritto, forse non ci si rende conto abbastanza di cosa significherebbe un processo senza fine, un processo senza termini, una “sospensione” che equivale ad “abrogazione”.
Si legge nel testo della proposta che la prescrizione non opererebbe più a partire dalla sentenza di primo grado. Sia di condanna che di assoluzione. In sostanza, dopo la pronuncia di primo grado, nessun limite temporale si porrebbe all’accertamento. Di fatto, si propone una abrogazione dell’istituto. Immaginiamo il processo a carico del signor Rossi. Nella sua veste di imputato il signor Rossi non potrà fare alcun progetto sulla sua vita, neanche dopo essere stato assolto in primo grado. (Basta un appello del P.M. contro la sentenza di assoluzione e si aprono le porte al processo infinito).
Il suo processo proseguirà per un tempo indeterminato ed indeterminabile. I suoi progetti familiari e professionali, la sua socialità saranno in una “bolla”. Essendo imputato di qualsiasi tipologia di reato vivrà nell’incertezza più assoluta. Concluso il primo grado, potrà rimanere nella sua condizione di imputato per altri due anni o altri dieci e perché no, altri dodici, tredici o quindici. Ma potrei proseguire perché, senza limiti prestabiliti, i numeri sono infiniti… Così, tornando al signor Rossi, in caso di condanna definitiva rischierà di scontare la pena a distanza di moltissimi anni dal fatto commesso (passando da giovane ad adulto o da adulto ad anziano). Se sarà assolto invece?
Siccome spesso accade (a dispetto della suggestione proposta nell’osmotico binomio accusato-colpevole) avrà trascorso gran parte della propria vita “a fare l’imputato” in servizio permanente effettivo. Con le note preclusioni e gli intuibili pregiudizi che tale peculiare statusdetermina. Insomma, l’unica certezza sarà l’incertezza.
A ben vedere, forse una certezza ci sarebbe: il cittadino verrebbe a pagare sulla propria pelle le inefficienze del sistema.
È evidente, a mio avviso, che si darebbe vita ad un rimedio certamente peggiore del male e ad un arretramento delle garanzie più elementari per il cittadino e per il sistema stesso. Come non immaginare, nel caso in cui non vi fosse alcun limite temporale alla celebrazione del processo, rinvii di anni da una udienza all’altra (come accade spesso nel contenzioso civile) con l’accusato chiamato a convivere con un’angosciante attesa che non può non evocare le paradossali lacerazioni mirabilmente descritte da Franz Kafkanella quotidiana dimensione emotiva del suo Josef K.
La dilatazione del processo sine die, oltre a porsi, come detto, in netto contrasto con l’articolo 111 della Costituzione e con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, determinerebbe una lesione non solo alle garanzie dell’imputato ma anche una tardiva riparazione per la “vittima” del reato che, rimarrebbe in ogni caso risucchiata da un farraginoso ingranaggio temporalmente sconnesso.
Una giustizia lenta è sempre - da qualunque prospettiva la si guardi - una “giustizia ingiusta”. Se quindi la dilatazione dei tempi rappresenta l’antitesi di una “giustizia giusta”, ritengo deleterio incentivarne, finanche legislativamente, una dimensione perpetua.
Andrebbero, invece, introdotti correttivi per garantire tempi ragionevoli per la celebrazione del processo. L’esatto contrario di quanto la proposta di sostanziale “abolizione” della prescrizione determinerebbe. Questa scelta, poi, suscita ulteriori perplessità anche nella misura in cui non opera distinzioni sotto il profilo selettivo (si applicherebbe a tutti i reati, da quelli bagatellari a quelli di particolare allarme sociale).
Tanto rappresenta un ulteriore cambio di rotta rispetto all’attuale assetto normativo che, al contrario, prevede tempi di prescrizione differenti, proporzionati alla gravità del reato (in base alla pena), ricorrendo a criteri di tipo oggettivo. Fino ad arrivare all’imprescrittibilità dei reati puniti con la pena dell’ergastolo.
L’annunciata riforma quindi, sembra non essere in linea neanche con i richiamati principi nel massificare il ricorso ad una generalizzata imprescrittibilità. Una stonatura da ogni punto di vista.
Mi auguro che un dibattito più illuminato abbandoni gli spotad effetto e si proietti nella realtà del sistema giustizia, si abbandoni la ricerca di allungamento dei termini di prescrizione (già sufficientemente lunghi) e si investa sul “servizio” per consentire al processo di concludersi in tempi ragionevoli.
Ed allora, occorrerebbe operare, in un momento di emergenza come quello che viviamo, sugli effetti distorsivi provocati da un sistema processuale “ingolfato” soprattutto a causa della carenza della necessaria proporzione tra numero di magistrati e carico di lavoro.
Se il numero dei magistrati e degli organici amministrativi non è proporzionato alla enorme mole di procedimenti da trattare non si può far finta di niente.
È un dato che condiziona ogni ragionamento di sistema. È una fotografia che mette i numeri al centro di un ragionamento che non si nutre di ideologizzazioni e preconcetti. L’ipertrofia del sistema penale vigente – nell’ambito del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale - non può essere fronteggiata se i rapporti tra contenzioso da trattare e definire ed il numero di magistrati sia sproporzionato.
Non si può, al contrario, pensare di superare questi problemi di squilibrio facendo leva sulla sottrazione di garanzie e diritti del cittadino in sede giudiziaria. Soprattutto se questi diritti e queste garanzie sono il frutto di una evoluzione di secoli.
Come spesso accade, la sensibilità nei confronti di questi principi cede il passo a concetti distonici rispetto al grado di civiltà giuridica raggiunta. Concetti che, a mio avviso, si traducono in suggestive semplificazioniin grado di entusiasmare le piazze, ormai sempre più virtuali. Ma su questi temi, tanto delicati, occorre mettere da parte gli slogan e saper guardare oltre.
Quella della lotta alla prescrizione è una battaglia che va combattuta contraendo i tempi del processoe non dando vita ad un “giudizio perpetuo”, autonomamente quanto ingiustamente afflittivo.
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