La Trasparenza ha a che fare con la democrazia, rappresenta "un formidabile strumento di inclusione e di costruzione di fiducia e di legittimazione", costituisce una "sfida centrale" per cambiare la Pubblica Amministrazione, le istituzioni e, quindi, il Paese.
"Se la Democrazia 2.0 rappresenta una fantomatica forma di democrazia elettronica diretta (sulla quale molti sono i dubbi che affiorano), "una nuova Democrazia 3.0, una democrazia collaborativa, fondata sulla classica democrazia rappresentativa ma aperta all’intelligenza collettiva dei cittadini, può aiutare "lo Stato a riconoscere problemi e bisogni e soprattutto a trovare soluzioni". Ne ha parlato Alberto Bitonti al convegno dal titolo La sfida della Trasparenza, tenutosi il 23 ottobre all'Istituto della Enciclopedia Italia a Roma.
La Trasparenza, il Bianconiglio e la Democrazia 3.0
di Alberto Bitonti
Per comprendere appieno qual è il ruolo della trasparenza in una moderna democrazia e perché si tratti davvero di una sfida, vi propongo un’immagine: la trasparenza è come il Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie. Potete iniziare ad inseguirlo, a rincorrerlo, provare ad acciuffarlo, ma raramente si ha idea dei luoghi fantastici dove ci può condurre. Proviamo a scoprirlo allora.
La trasparenza può assumere moltissime forme. Nella maggioranza dei casi, la trasparenza viene vissuta acriticamente come un feticcio dai poteri salvifici, o peggio come un vuoto slogan di cui farsi vanto (d’altra parte chi non è d’accordo con una maggiore trasparenza?), finendo così per ritrovarsi incagliati in mille evidenti contraddizioni.
A volte la trasparenza è finita per assumere la forma di un mero orpello, un collaterale requisito di legge da assolvere a malincuore e in maniera piuttosto meccanica da parte di qualche funzionario (costretto a caricare da qualche parte sul web un pdf mal scansionato). Oppure la trasparenza è diventata una specifica pagina dei siti web istituzionali in cui si danno informazioni su collaboratori, curriculum, stipendi, indennità. È una delle forme di trasparenza preferite da pubblico e giornalisti (perché solletica anche un certo voyeurismo), giusta e sacrosanta (a maggior ragione a fronte dei tanti abusi commessi in passato e purtroppo ancora oggi, in barba alla cosiddetta meritocrazia), ma che si ferma davvero ai primi passi di ciò che può voler dire trasparenza.
Ci siamo appena avvicinati all’ingresso della tana del Bianconiglio. Siamo ancora, infatti, nel campo della trasparenza – e della democrazia – 1.0, incarnata dal vecchio principio della pubblicità: rendere pubblico ciò che avviene nei “palazzi del potere”, a maggior ragione con l’affermarsi della democrazia rappresentativa, a beneficio della stampa e dell’opinione pubblica più vasta. Si tratta di principi espressi già dal 1600 da autori come James Harrington, John Milton, John Locke, dai padri costituenti americani (quelli che dicevano, come James Madison o Alexander Hamilton, che il futuro degli Stati Uniti dipendeva dalla qualità dell’informazione e della loro stampa), o dagli illuministi svedesi che nel 1766 diedero alla luce il primo FOIA del mondo.
Pubblicità e trasparenza come formulate per esempio da Jeremy Bentham (che nel suo Saggio sulla Tattica politica del 1816 ricordava come il pubblico rappresenta una sorta di tribunale universale in grado di scoraggiare le tentazioni e gli abusi del potere), e che ritroviamo anche nel concetto di Öffentlichkeit di Habermas, una sfera pubblica in cui un’opinione pubblica razionale e informata (di stampo illuministico) è in grado di dibattere dei grandi temi pubblici, messi al centro dell’agenda (grazie alla trasparenza-pubblicità) delle istituzioni rappresentative. Non si tratta solo delle istituzioni rappresentative come i Parlamenti o i Governi nazionali, ma di tutto il complesso delle istituzioni, della Pubblica Amministrazione, degli enti pubblici o para-pubblici: quando Filippo Turati nel famoso discorso parlamentare del 1908 parlava di “casa di vetro”, si riferiva infatti alla casa dell’Amministrazione nel suo complesso.
Ma come vengono prese le decisioni all’interno di quella casa? Che rapporti ci sono tra i decisori pubblici e i soggetti privati? Chi incontrano i nostri rappresentanti? Sono tutte domande che una più completa concezione della trasparenza ci spinge a porci. Sentite la vertigine? Iniziamo a cadere nella tana del Bianconiglio.
La trasparenza assume qui i contorni dell’accountability, della responsabilità dei decisori pubblici davanti ai cittadini, cittadini spesso fomentati da cultura del sospetto, proclami populisti e teorie della cospirazione sui fantomatici “poteri forti”. Soprattutto per chi ha cariche di governo, allora, strumenti come l’Agenda pubblica degli incontri o i Registri della Trasparenza dei portatori di interesse (come quelli virtuosamente avviati al MISE dal Ministro Calenda e alla Funzione Pubblica dalla Ministra Madia) rappresentano un modo per dimostrare che la trasparenza è anche un formidabile strumento di inclusione e di costruzione di fiducia e di legittimazione. Si tratta di un tema che mi sta particolarmente a cuore avendo dedicato molti anni allo studio del lobbying e delle sue modalità nei paesi europei e non solo, e sono convinto che si tratti di un punto nevralgico della democrazia del tempo presente.
Un concetto chiave, infatti, è che trasparenza e democrazia sono legate intimamente, anche nel loro concreto attuarsi. Nonostante si dibatta di trasparenza e democrazia da più di tre secoli, la trasparenza (anche nel suo senso 1.0 di pubblicità dell’informazione) continua purtroppo ad essere più l’eccezione che la regola, e l’opacità sembra pervadere il funzionamento di larga parte delle istituzioni pubbliche italiane, aiutata da un certo gusto per il bizantinismo giuridico, ma questa è (solo in parte) un’altra storia.
Proprio qui possono entrare in gioco il FOIA e il cosiddetto accesso civico, concepito come diritto dei cittadini ad accedere alle informazioni (tutte le informazioni) in possesso delle istituzioni pubbliche. Informazioni importanti per la vita dei singoli, riguardanti ad esempio la salubrità dell’aria, la presenza di amianto nel proprio territorio o la sicurezza edilizia delle scuole dei propri figli (per prendere tre esempi tratti dal bel libro degli amici Ernesto Belisario e Guido Romeo, Silenzi di Stato).
Squarciata la coltre di opacità, l’accesso ai dati in possesso delle istituzioni pubbliche è allora l’altra grande forma della trasparenza, gli open data, enormi quantità di dati aperti, a disposizione di chiunque. A maggior ragione con la rivoluzione digitale rappresentata dalla diffusione di Internet e del Web, l’idea degli open data diventa ancora più travolgente. Senza bisogno di recarsi fisicamente in un qualche ufficio o di tuffarsi in lunghe e dispendiose ricerche d’archivio, sarebbe possibile ottenere in formato digitale aperto, direttamente a casa sul proprio computer o ovunque nel mondo sul proprio smartphone, una quantità incredibile di dati, potendo conoscere così ciò che le istituzioni fanno, quanto spendono e per cosa, e in teoria potendo arrivare a tutte le informazioni in possesso delle istituzioni stesse.
Laddove i dati rilasciati non siano i famosi fogli scannerizzati in pdf (che non definirei neanche open data), bensì dati ricercabili con testi e metadati, con database unici linkabili (che evitino il fastidioso problema di dati contrastanti o sdoppiati anche all’interno della stessa PA; un contractor del Department of Defense americano qualche anno fa usava l’immagine del caleidoscopio per descrivere questo problema), magari rilasciati come API che facilitino il riuso in nuove non previste applicazioni, vi sarà un salto nella stessa qualità dell’informazione o dei servizi erogati al cittadino, poiché organi di informazione (stampa, blogger, ricercatori universitari), imprese e gli stessi cittadini potranno attivarsi per nuovi e migliori usi dei dati a disposizione (esempi? OpenParlamento, openmigration.org o Moovit).
Come suggeriva in un saggio di qualche anno fa Aaron Swartz, non si tratta allora di ricercare la trasparenza in sé, ma di capire a cosa serva, e di permettere ai cittadini di attivarsi per risolvere dei problemi. Siamo ormai dentro al Paese delle Meraviglie. Il ruolo di guida, il nostro personale Stregatto in questo viaggio, non può che essere assunto dalla filosofia dell’Open Government, la teoria del Governo Aperto, che poggia esattamente su Trasparenza, Accountability, Partecipazione, Collaborazione tra governo e cittadini.
Per la filosofia dell’Open Government (opengov per gli amici), la trasparenza non è un orpello, ma è un metodo. È un drive di innovazione che permette di ripensare i processi stessi di governo, aprendosi non solo al feedback esterno, ma ad una vera e propria collaborazione con i cittadini, le imprese, la società civile. Questo permette di vedere le “persone non solo come portatrici di bisogni, ma anche di soluzioni” (Annibale D’Elia).
Se la Democrazia 2.0 rappresenta una fantomatica forma di democrazia elettronica diretta (sulla quale ho tutti i dubbi possibili), mi piace immaginare una nuova Democrazia 3.0, una democrazia collaborativa, fondata sulla classica democrazia rappresentativa ma aperta all’intelligenza collettiva (e connettiva direbbe De Kerkhove) dei cittadini, che aiutino lo Stato a riconoscere problemi e bisogni e soprattutto a trovare soluzioni. Differentemente dalla post-democrazia di Crouch o dalla nuova democrazia di Turner, nelle quali sono le tecnocrazie e gli esperti ad assumere un ruolo di primo piano depauperando il demos della sua sovranità, la democrazia 3.0 che ho in mente si fonda su uno Stato abilitante, su una piattaforma trasparente e aperta che anche grazie al digitale educhi e abiliti i cittadini, le imprese, la società civile a collaborare nel trovare soluzioni migliori per il governo, per le istituzioni, per la collettività. Si tratta, insomma, di aggiornare il design della democrazia al tempo dei big data, del crowdsourcing, delle immani potenzialità di una sfera pubblica digitale.
Alcuni penseranno semplicemente che questa nuova Democrazia consista nell’uso dei social network, degli open data o del cloud computing, ma in realtà si tratta solo di epifenomeni. La sostanza è che il governo, le istituzioni stesse, sono una piattaforma di azione collettiva, sono la nostra piattaforma, sono il motivo per cui stiamo insieme come società, al fine di affrontare problemi che come individui non potremmo affrontare.
Sul fronte del grande impegno per cambiare la Pubblica Amministrazione e le istituzioni – che a mio avviso è una delle due-tre battaglie davvero strategiche per cambiare il Paese – quella della trasparenza e dell’open government è – come vedete – davvero una sfida centrale. Una sfida che, per migliorare la qualità della nostra democrazia, vale la pena affrontare con tutto l’entusiasmo possibile, guardandosi allo specchio come istituzioni, e magari anche provando ad attraversare lo specchio.
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