intervista di Gianni Carbotti e Camillo Maffia
È notizia recente che la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione presentata da Raffaele Sollecito ha ricevuto parere negativo da parte della Corte d'Appello di Firenze, che nelle motivazioni cita elementi presenti nella prima fase dell'istruttoria e sembra mettere in discussione i presupposti della stessa sentenza di assoluzione relativa al “delitto di Perugia”. Non è mancato il consueto accanimento mediatico nei confronti di Sollecito, il quale pone un problema di reciprocità: vengono prima i media o la giustizia?
“Mi sembra di essere sempre sotto processo” - dice Sollecito. Interrogativi che riportano alla mente, più che Bianco e nero e Linea gialla, i romanzi di Franz Kafka o di Albert Camus: il processo che non finisce mai diventa una metafora del rapporto tra sé e l'altro, tra sé e il mondo, di una distanza resa sempre più lacerante da una civiltà che tradisce le sue stesse fondamenta.
Ripercorrendo gli elementi con cui sono state costruite le accuse contro di lui, cadute in fase processuale e a tratti riemerse nella sentenza con cui gli si nega il risarcimento nonostante gli anni passati in galera da innocente, Sollecito risolve il problema a modo suo, usando se stesso come particolare per illuminare l'universale, senza disinteressarsi di sé ma mettendo il suo dramma a servizio di quelli altrui, colmando così quella frattura che si ricompone nel momento in cui si realizza che ognuno di noi è esposto alla tragedia dell'equivoco e al dolore del giudizio dell'altro, così pronto a definire la nostra esteriorità nella totale ignoranza dell'interiorità con cui noi stessi ci definiamo, fin quando non irrompe la percezione del mondo. In un modo o nell'altro.
In seguito alla tua assoluzione definitiva hai scelto di chiedere l’indennizzo per ingiusta detenzione come da tuo diritto. Di pochi giorni fa è la notizia che la Corte d’Appello di Firenze, cui avevi presentato istanza, l’ha rigettata. Vorrei chiederti di ricostruire brevemente la vicenda e le motivazioni con cui la Corte ha rigettato il tuo ricorso.
Be', sono undici pagine di sentenza in cui la Corte di Firenze fa sua un’idea di colpevolezza mia e di Amanda totalmente disancorata, ovviamente, da quanto hanno detto i giudici della Cassazione ma non solo: disancorata anche da sentenze, da fatti processuali che evidentemente hanno dimenticato o totalmente ignorato. Perché ci sono delle sentenze molto precise e ormai definitive riguardo all’ambiente che si respirava in questura nei giorni in cui sono stati fatti gli interrogatori. Cerco di andare al punto: la Corte di Firenze dice che io non sarei meritevole di risarcimento perché mi sarei contraddetto durante gli interrogatori in questura. Innanzitutto quegli interrogatori sono incostituzionali, sono stati cassati già nelle primissime fasi delle indagini e di tutta la storia processuale; poi aggiungici che non sono mai entrati negli atti e non potevano utilizzarli, che le mie cosiddette “gravi contraddizioni” sono alla stregua di: “Raffaele Sollecito ha detto che lo ha chiamato il padre durante la serata verso le 23.00”, mentre in realtà mio padre mi aveva chiamato verso le 20.47... Adesso questa grande contraddizione io non ce la vedo…
Un ragazzo a cui il padre telefona il giorno prima non è abituato ad appuntarsi l’orario, ovviamente.
Chiaro! Mettici che in questura io non avevo un avvocato: sono stato 15 ore con un giro di poliziotti che poi hanno firmato ed erano 40! E c’era un clima molto teso, perché loro continuavano a dirmi che Amanda era una “vacca”, che io la stavo coprendo, che non avevo detto tutta la verità, che lei si era assentata ed io sono uno scemo, che mio padre non mi merita... Poi quando mi hanno fatto svuotare le tasche e avevo questo coltellino a serramanico, li ho visti saltare davanti a me! Ora io quel coltellino lo portavo in tasca così per vezzo, ma ovviamente non era l’arma del delitto e sinceramente non è che l’avessi fatto apposta a portarmelo in questura. Siccome lo portavo sempre con me non ci ho pensato: ho dimenticato di lasciarlo a casa quando sono andato in questura.
Me lo sequestrarono e il GIP disse che quella era l’arma del delitto. Mi sequestrarono le scarpe e mi lasciarono a piedi nudi dicendo poi, davanti al GIP, che quelle erano le scarpe che erano entrate nell’area dell’omicidio sulla base di un’orma: alla fine anche quella prova è stata disattesa. Io non sono stato arrestato per le mie contraddizioni, sono stato arrestato per via di quegli elementi che poi sono caduti nelle fasi e nei mesi successivi delle indagini. Nonostante poi abbiano voluto mantenere in piedi il castello grazie all’asso nella manica del famoso gancetto del reggiseno che è stato ritrovato mesi dopo e in realtà era tutta una farsa perché era totalmente contaminato: l’avevano spostato, strisciato in ogni dove…
In quegli interrogatori sono stati violati i miei diritti civili e costituzionali. Non sono entrati mai nel processo e la Corte di Firenze non ha tenuto conto di tutto questo. Inoltre mi accusa di non aver mai parlato in tribunale quando non è assolutamente vero visto che io ero sempre a disposizione. Ovviamente ho fatto delle dichiarazioni spontanee, ma nessuno ha chiesto il mio interrogatorio o il mio esame. Qualcuno l’interrogatorio lo doveva chiedere, non me lo posso inventare da solo né posso leggere nella testa di chi mi sta giudicando, se permetti! Non è colpa mia se nessuno me l’ha chiesto. Insomma hanno rigirato le mie colpe in una maniera incredibile.
Oltretutto mi dicono che il mio alibi è fallito (e si trattava dell’alibi del computer, perché avevo detto di aver lavorato al computer quella sera) quando in realtà sono stati gli stessi inquirenti ad aver bruciato gli hard-disk del computer. Quindi ancora una volta mi danno colpe che in realtà sono di chi ha fatto le indagini. È assurdo quest’atteggiamento. E c’è ancora di più, perché nella sentenza dicono che, atteso che Amanda non aveva nessun motivo di incolpare Lumumba e che il mio alibi era fallito, Amanda era sulla scena del crimine e io non potevo essere altrove e non con Amanda, quindi siamo colpevoli! In poche righe hanno sovvertito dieci anni di processi dicendo che alla fine Amanda e Raffaele sono colpevoli.
Abbiamo avuto l’impressione che si continui a giocare su queste presunte ambiguità della sentenza di assoluzione nei media e sulla diversa posizione tua e di Amanda, che non ha fatto la richiesta di risarcimento, quasi a voler sminuire la decisione della Cassazione che vi ha prosciolti con formula piena per non aver commesso il fatto.
Amanda è in una situazione processuale diversa dalla mia perché lei ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per una condanna per calunnia che secondo me non merita. E quindi prima di poter chiedere un risarcimento danni deve finire questa storia processuale. È un passaggio obbligato. Io spero che la Corte di Strasburgo, che ha accettato il ricorso, le risponderà positivamente: nel momento in cui ci fosse una risposta positiva anche lei potrebbe chiedere un risarcimento allo Stato. Perché ovviamente i tre anni e mezzo previsti dalla condanna definitiva per calunnia coprono tutto il tempo che lei ha trascorso in cella. È naturale che lei il ricorso non lo può fare in questo momento.
Dato il ruolo dei media nella vicenda processuale che ti ha visto protagonista tuo malgrado, tu credi che anche in questo caso – cioè nel rigetto della tua richiesta di risarcimento – l’attenzione mediatica su questa storia abbia pesato?
Sì, sicuramente. Sono molto amareggiato, sinceramente, perché ogni giorno vedo gente che parla, esprime convinzioni su vicende di cui non sa assolutamente nulla, giornali che stampano fiumi e fiumi di immondizia. Straparlano di sensazioni, di emozioni. “Avrebbe dovuto dire, avrebbe dovuto fare”… un’inquisizione che aleggia in ogni angolo dell’informazione e dei commenti, dei giudizi popolari. Per me è veramente inaccettabile.
L’abbiamo visto nei giorni scorsi con la sentenza della Cassazione nei confronti di Sabrina Misseri e Cosima Serrano…
Esatto! Pure per quello che riguarda Avetrana, questo tipo d’atteggiamento non lo comprendo e mi sento “fortunato” a non essere come le persone che lo assumono. Ne sono amareggiato soprattutto perché così si perde totalmente il senso di giustizia. Tutto questo per me è raccapricciante: non esiste più il diritto, ma la chiacchiera da bar che poi diventa una sentenza definitiva. Allora mi chiedo: che tipo di paese è questo? Che tipo di civiltà è questa?
A questo proposito abbiamo letto anche commenti a caldo secondo cui in un certo senso si trattava di un esito scontato visto che, dall’inizio, il processo si era tenuto pubblicamente – sui giornali, nei programmi televisivi, eccetera – ed era già stata pronunciata una sentenza popolare.
È proprio una forma d’inquisizione in cui mi sento coinvolto anch’io. Il mio discorso ruota sempre intorno a quello che ho detto prima: ”avrebbe dovuto dire, avrebbe dovuto fare…”. Chi siete voi, che state lì a guardare, per essere così convinti di sapere quello che io sento, quello che io voglio e dove sto andando? E oltretutto quello che dovrei fare! State costruendo per me una gabbia invisibile? Mi volete mettere “agli arresti domiciliari” perché mi devo comportare secondo determinati canoni? Che cosa significa questo comportamento, queste richieste?
Ritieni che nel pubblico si sia sviluppata una mancanza di empatia?
Sì, continuano a dire che uno dovrebbe comportarsi in un dato modo oppure obiettano: “Ma tu che hai vissuto tutto questo, perché ti metti a fare certe cose?” Tu che poni questa domanda, hai mai vissuto quello che ho vissuto io? O è una domanda di tipo moralista o pseudo-etica che non significa niente?
Possiamo dire che è come se tu ti sentissi sempre sotto processo da questo punto di vista?
Sì, devo essere sotto processo per qualunque cazzata. Ovviamente la vicenda dei commenti su Facebook me la potevo risparmiare: ero però sul mio profilo personale e i giornalisti che anche in contesti importanti mi fanno questo tipo di domande sinceramente ai miei occhi scadono. Cala in me tutta la stima per la serietà del dialogo: non c’è più serietà davanti a domande del genere.
Tu sei coinvolto, a seguito della tua esperienza, su temi come il carcere, la giustizia giusta, i diritti dei detenuti. Nei tuoi interventi ci ha molto colpito il fatto che sottolineavi citando anche aneddoti e ricordi personali della tua detenzione: come e quanto sia disatteso l’Articolo 27 della Costituzione, quello che sancisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Un principio del tutto inapplicato come sappiamo in Italia e da quello che tu racconti questo emerge in maniera particolarmente evidente.
Non è disatteso, non esiste! È completamente dimenticato. Sembra assurdo ma è naturale: se noi viviamo in un paese dove mediamente tutti pensano che sia meglio l’inquisizione (perché d’inquisizione si tratta con questo modo di fare); se noi pensiamo che sia giusto comportarci in questo modo perché magari abbiamo problemi sociali in generale e ce la prendiamo con tutto quello che ci capita davanti e che ci viene rappresentato come il Male; se cerchiamo un capro espiatorio per una marea di problematiche che ci affliggono in questo paese, è naturale poi che diamo credito al presidente della Associazione Nazionale Magistrati Davigo quando dice addirittura che se uno viene assolto non significa che sia innocente, vuol dire che manca la prova.
Siamo proprio al massimo livello dell’inquisizione. Se le persone la pensano così e credono che la legalità sia garantita, che sia una cosa seria in questo paese, è normale che alla fine chi sta dentro, chi viene incolpato e incarcerato sia una persona che merita una punizione, non solo una restrizione della libertà che sono due cose totalmente diverse. Le nostre leggi e la Costituzione parlano in modo chiaro e serio: dicono che una persona che disattende e viola una legge o si comporta in modo sbagliato magari facendo del male a qualcuno merita una restrizione della libertà perché deve riparare al danno compiuto e soprattutto deve essere “rieducata” a ritornare un domani nella nostra società; che questo suo disagio nei confronti delle nostre regole venga eliminato, che gli si insegni ad apprezzare la legalità: che sia reintegrato, dopo un percorso anche lungo se è il caso, all’interno della società.
Se la gente invece crede che chi è stato in carcere sia peggio di un cane o che se sta dentro stia bene lì e debba soffrire le pene dell’inferno perché ha fatto del male alle sue vittime, come vuoi che questo Articolo 27 si materializzi? In base a chi? A cosa? A delle entità astratte? Sappiamo come sono fatti i politici e le istituzioni in Italia, sappiamo perfettamente che pensano al concreto, al sodo, quello che c’è da fare di urgente lo fanno e tutto quello che si possono risparmiare non lo fanno. È molto semplice il concetto! Quindi se questa è la mentalità generale, figuriamoci se vengono spesi fondi o realizzati strumenti per far rispettare quest’articolo. Finché non cambierà la mentalità questo non succederà mai.
Quindi fondamentalmente il carcere è e rimane secondo te una discarica sociale e basta? Un posto dove rinchiudere gli indesiderati e tenerli lontani dal resto della cittadinanza?
Certo! Calcola che la maggior parte delle persone vive in una realtà che è tutta loro. Si sentono civili tra le mura di casa e di tutto il resto non gliene frega niente.
Torniamo quindi a questa mancanza di empatia: sembra che la gente in Italia si accorga sempre troppo tardi di che cosa succede in questo tipo di situazioni…
Ne parlavo pochi giorni fa con degli amici e dicevo: “Scusate, faccio un paragone. Prendiamo ad esempio un cane: se fa qualcosa di sbagliato a un altro cane o a un uomo noi reagiamo, non stiamo a guardare; ci sono delle conseguenze. Le nostre reazioni a livello istintivo sono o di far capire al cane che ha fatto una cosa sbagliata e quindi, diciamo, fargli capire che in fondo gli esseri umani o gli altri cani non gli vogliono male per questo: deve capire che comunque c’è un mondo che gli vuole bene, pronto a coccolarlo, e viene “ripreso” per fargli capire che non deve comportarsi così; oppure di sopprimerlo. Queste sono le opzioni, ma nessuno penserebbe mai che un cane che aggredisce una persona debba essere torturato perché non lo faccia più! Non funziona. Anche uno stupido sa che una cosa del genere non può funzionare: anzi lo incattivisce ancora di più, diventa ancora più aggressivo, giusto? Allora perché col cane funziona così e con l’essere umano no?
È la funzione criminogena del carcere che vuoi sottolineare? Un posto dove, come dicevamo prima, non si recuperano gli individui ma si creano nuovi criminali…
Esatto. Li incattivisce facendoli soffrire. Io l’altro giorno stavo parlando con un ex-detenuto: capisco, perché sono stato detenuto anch’io, quando quello mi guarda con gli occhi pieni di desiderio di rivalsa, di rivincita, nei quali si legge che non ha più niente da perdere, e a me dispiace. Da come la vedo io purtroppo – dico una cosa un po’ forte ma purtroppo è quello che penso – per me è già morta quella persona. È già morta dentro perché non sente più niente, ormai per lui la vita significa cercare di prendere tutto quello che può perché il domani non c’è più e non gli frega più di niente e di nessuno. Ed è una cosa tristissima perché un essere umano non dovrebbe essere così e invece negli occhi degli ex-detenuti io molto spesso vedo questo. E non è nemmeno strano… c’è solo rabbia.
Io vorrei semplicemente ribadire a tutti quanti che spero qualcuno un giorno rifletta sul serio su quello che è effettivamente il nostro sistema giudiziario e il nostro sistema carcerario. Perché parlare di persone indagate o detenute sempre con un piglio inquisitorio mi sembra veramente degradante. L’unico aggettivo che mi viene in mente è questo: è tutto estremamente degradante e così non si arriva da nessuna parte. I media continuano sempre a fare informazione-spazzatura su questi temi e la gente continua a chiedere questa roba, come se vivesse in un grosso Grande Fratello delle tragedie, dello squallore e della morbosità.
Spero che tutto questo un giorno finisca. Fino a quando si tratta di un reality show ci si può stare perché le persone coinvolte partecipano ad un gioco e alla fine questo sta bene a tutti, ma qui stiamo parlando di tragedie, di vite distrutte, massacrate. La giustizia non è un reality show. Per condannare, per giudicare (a parte il fatto che forse non lo si dovrebbe fare mai), se proprio ci si vuole addentrare in questi meccanismi bisogna conoscere le prove, i fatti, non bisogna avere preconcetti o la chiacchiera pronta. Bisogna immedesimarsi e per immedesimarsi si deve conoscere. Devi conoscere la persona, devi conoscere la vicenda abbastanza bene, cioè negli atti! Non si può parlare in questo modo, con leggerezza, non si possono trasformare le tragedie della gente in questi reality dell’orrore in cui chiacchierare per ore ed ore. In realtà così si disintegra totalmente quello che è il diritto, la civiltà, la dignità.
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