Succede talvolta, specie durante certe gelide serate d’inverno, quando le temperature esterne esortano a rifugiarsi in un posto caldo, magari per ascoltare storie tutti insieme in un rito collettivo dal sapore antico, che la confortevole poltrona d’un teatro si trasformi in una sorta di marchingegno sciamanico capace di trasportarci in epoche e latitudini lontane e caratteristiche.
Se poi capita d’avere per anfitrione nelle vesti di narratore e cantore un inedito Moni Ovadia in ottima forma, capace di recitare e cantare per un’ora e mezza con un accento pugliese assolutamente credibile, supportato dall’impeccabile esecuzione musicale della talentuosa violinista H.E.R. e della sua band Famenera, l’effetto straniante e coinvolgente allo stesso tempo è garantito.
Stiamo parlando di ''Prapatapumpapumpapà, padrone mio ti voglio arricchire'', concerto-recital andato in scena in questa prima metà di dicembre al Teatro Vittoria di Roma per la regia di Cosimo Damiano Damato.
Lo spettacolo, omaggio sentito alla straordinaria personalità artistica di Matteo Salvatore, compositore e cantante pugliese dall’importanza seminale per quanto riguarda le radici stesse della nostra tradizione musicale, attraverso la riproposizione dei suoi brani in un arrangiamento suggestivo che punteggiano la narrazione della sua esistenza, dall’infanzia alla morte solitaria attraverso miseria, successo, carcere, disperazione e riscatto, ci guida alla riscoperta d’una poetica fatta d’accordi in minore, di note dalle risonanze atemporali, delle eterne e dolorose tematiche dell’amore, della vita, della fatica, della fame filtrate dalla sensibilità travagliata d’un uomo profondamente vero, non a torto riscoperto nel corso degli anni dai grandi interpreti della canzone d’autore, da Dalla ad Arbore fino a Vinicio Capossela che spesso inserisce brani di Salvatore nella scaletta dei suoi concerti.
“Noi le parole di Matteo Salvatore le dobbiamo ancora inventare” diceva Calvino parlando del musicista che conosceva ed ammirava perché sapeva unire «disperazione e fantasia», considerandolo «l’unica fonte di cultura popolare in Italia».
Le vite e le vicende degli ultimi in una Puglia d’inizio secolo, splendidamente disperata ed affamata che potremmo, per esteso, associare a tutti i “Sud”, le zone marginali, più povere, della Terra, sono descritte con ironia amara in canzoni come La Cometa, Pasta Nera, Monaco Cercatore, la condizione politica dell’Italia schiacciata dal regime fascista si rivela attraverso Evviva la Repubblica, E’ Proibito, La Campagna Demografica, l’amore è esaltato con Il bene mio e Fra me e te, il duro lavoro narrato con Padrone Mio e Il Lamento dei Mendicanti.
“L’anima del Sud impregna le canzoni di Matteo Salvatore, un’autentica bandiera sociale, per il modo in cui ha condotto la propria esistenza. Un’artista che ha conferito alla sua musica una forte funzione provocatoria di denuncia” aveva detto di lui Lucio Dalla, a sua volta ricordato in una proiezione alla fine dello spettacolo la cui ideazione prende piede proprio con la messa in scena al Petruzzelli di Bari nel 2012 dello spettacolo “Il Bene mio. La vita e le canzoni di Matteo Salvatore”, che vedeva sul palco Lucio Dalla e Marco Alemanno.
Lo stesso Dalla aveva pensato a Moni Ovadia in quell’occasione, coinvolgendolo come ospite del progetto. E ci voleva proprio la generosità e la forza di Ovadia, artista versatile e cosmopolita, attento cultore ed esegeta di molteplici influenze culturali, per raccogliere il testimone del grande Lucio e riportare sulle scene la figura di Salvatore.
Aspettiamo ora di vedere il documentario dallo stesso titolo girato dal regista Damato con Renzo Arbore nella città natale di Matteo Salvatore, Apricena, alla ricerca delle radici di colui che è senza dubbio tra gli iniziatori di quella che è la contaminazione tra tradizione popolare e folk.
Una fusione perfettamente riuscita nello spettacolo di Moni Ovadia, il quale riesce a intrattenere il pubblico con entusiasmo e curiosità attraverso una preziosa ricerca in cui le parole e i suoni s’inseguono vorticosamente nella creazione di un affresco che riporta tra noi luoghi e caratteri lontani nel tempo, ma vicini nei temi e nel linguaggio creato da autori e interpreti per raccontare con gli strumenti di oggi, senza alterarla, un’Italia di ieri, la cui nostalgia cede il passo all’irruenta e caotica rappresentazione del vissuto individuale dell’artista pugliese. Un maestro che si riconferma, nonostante le alterne fortune, indimenticabile.
Gianni Carbotti e Camillo Maffia