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22/11/24 ore

Venezia, La Traviata, Verdi e La Fenice



di Vincenzo Basile

 

C’era una volta, erano gli anni quaranta dell’800, una donna di notevole fascino e personalità, che si chiamava Alphonsine Duplessis. In cambio di generose e riconoscenti donazioni la dama si concedeva a quella cerchia di ammiratori che nella Parigi bene di quegli anni sapeva apprezzare le sue virtù amatorie. Tra loro c’erano banchieri, nobili, intellettuali e artisti.

 

Uno di questi, Alexandre Dumas figlio, uno dei più fervidi, ne fù a tal punto coinvolto da dedicarle un dramma, La dame aux Camélias, che la vedeva trasposta in  personaggio come Marguerite Gautier. La pièce ebbe notevole successo grazie anche allo scalpore che suscitò per i contenuti all’epoca, considerati scandalosi. Giuseppe Verdi, di passaggio a Parigi, dopo avervi assistito ne rimase impressionato e chiese subito a Francesco Maria Piave, per l’Opera che decise immediatamente di comporre, di trarne un libretto.

 

La Traviata” titolo più che audace per il comune senso del pudore del tempo, suscitò l’energica reazione della Censura asburgica che volle moralizzarlo imponendo il più rassicurante “Amore e Morte” retrodatando l’ambientazione al secolo precedente, il più frivolo ‘700.

 

Il musicista, non potendo che soggiacere a quei dettami, decise di proseguire nella realizzazione del suo progetto e si rivolse a Carlo Mazzari, l’allora direttore del Teatro La Fenice, per chiedergli e ottenere al più presto la scrittura di una “cantante di prima forza” a cui affidare il ruolo della protagonista.

 

Il 6 marzo 1853 la Prima dell’Opera si rivela un fiasco clamoroso. I cantanti non sono all’altezza, l’ambientazione contemporanea caparbiamente voluta da Verdi non funziona e l’intreccio della storia sconvolge gli animi dei melomani.

 


 

Il compositore però non demorde e l’anno successivo, con un cast prestigioso e l’ambientazione settecentesca più gradita al gusto e alla sensibilità dell’epoca, la ripropone e riscuote il grande successo a cui ambiva, questa volta al Teatro San Benedetto, sempre a Venezia.

 

Innumerevoli da allora si moltiplicano le versioni più o meno fedeli all’originale. Fino a quella messa in scena nel 2004, a celebrare la riapertura del Teatro dopo il rogo. La diresse Zubin Metha, che ne ripropose la partitura originale.

 

Da allora, a ogni stagione, viene ripresentata a Venezia nella versione affidata poi al regista Roberto Carsen. La scenografia è di Patrick Kinmonth la direzione orchestrale del Maestro Nello Santi e la coreografia di Philippe Giradeau.

 

«L'orchestra è come una persona. Tutti noi respiriamo in maniera un po' diversa. Si devono amare i professori con i quali si collabora. Così facendo realizzeranno il massimo delle loro potenzialità»Così Nello Santi su L'EspressoÈ lui il pezzo forte dello spettacolo.

 

 

85 anni, perennemente in giro per i teatri di tutto il mondo, è forte dell’esperienza di oltre 60 titoli tra i quali: La Sonnambula (con Renata Scotto, Alfredo Kraus, Ivo Vinco); nel 1975-76 La Traviata e Madama Butterfly (con Maria Chiara, Gianni Raimondi, Mario Zanasi); nel 1995-96 conI puritani (con Stuart Neill, Mariella Devia, Ellero d'Artegna, Giorgio Zancanaro) e ancora La Traviata (regia di Pizzi, con Angela Gheorghiu e Ramon Vargas). Il decano dei direttori italiani, successore immediato di Gianandrea Gavazzeni, mostra il suo faccione all’inizio di ogni atto, sbucando dalla buca dell’orchestra come a voler rassicurare gli astanti, che nonostante le genialate registiche e sceniche, tutto procederà fino a degna conclusione. E così puntualmente accade a ogni replica.

 

Maria Grazia Schiavo infonde nella sua Violetta una prestazione di alta professionalità. Attorialmente puntigliosa nell’interpretazione della complessa psicologia del personaggio e vocalmente rimarchevole nella resa. Dagli acuti più che apprezzabili alla capacità di sfumare adeguatamente colori, toni e vigore nei momenti che lo richiedono (Amami Alfredo e l’applaudito Addio del passato)

 

Dignitoso l’Alfredo diIsmael Jordi anche se non riesce a “passare” per intero fino alla platea e impeccabile per physique du role l’austero e presentissimo Germont di Dimitri Platanias. Potente e calibrato sia nel recitativo che nel cantato, caldo e colorito.

 

Il resto del cast offre un contorno adeguato: Elisabetta Martorana (Flora), Sabrina Vianello (Annina), Emanuele Giannino (Douphol), Mattia Denti (Grenvil), Matteo Ferrara (d'Obigny). Ottima la prestazione dell'Orchestra nel complesso, come pure il Coro della Fenice, che alternano a questa le recite di Norma ed dell’ Elisir d'Amore. Calorosi i ringraziamenti verso  tutti gli interpreti.

 

Regia e scenografia invece, sono e rimangono gli aspetti discutibili di questa messinscena.

 


 

Volendo accentuare alcuni aspetti del racconto, probabilmente nel tentativo di rinforzarne l’etica strutturale, il regista finisce per ostentarne la significazione che finisce per deteriorarsi diventando grossolana.

 

Gli essenziali distinguo che ne determinano la sostanza e il senso vengono liquidati  semplificando le diramazioni verso le quali la narrazione si dipana allo scopo di enunciare la sua filosofia morale. L’operazione finisce suo malgrado per unificare i diversi vissuti che i personaggi hanno nei confronti del denaro: quello di Germont padre e rispettivamente quello di Alfredo, entrambi diversi da quello di Violetta e degli altri membri di quella mondanità che costituisce l’ambiente in cui si svolge la vicenda.

 

Piovono soldi; a più riprese.

 

Centinaia di fluttuanti banconote a sottolineare la venalità, non si capisce bene se di Violetta, amante prezzolata, di Alfredo il dissipatore da lei mantenuto, di suo padre, il corruttore di amori già  profani (?) o dell’intera casta di privilegiati rappresentata dall’Opera. Tutto ciò a cui si assiste proprio durante la cruciale Amami Alfredo!

 

I fondali, in varie tonalità di giallo-smorto -verdastro, spingendosi a omaggiare Le Betulle di Van Goog, volenti o no, certificano quanto il kitch possa essere sgradevole al di là del suo utilizzo. Cow Boys, sorta di Californian Dream Men, e Cow girls in perizoma e paillettes, zompano direttamente da una sorta di Social Far West a colonizzare il salotto di Flora Bervoix, amica e complice di Violetta, improbabili e irrisolte metafore di chissà quali rovesci epocali o esistenziali, non è dato decifrare.A seguire, la scena del ricevimento che risolve in caciara il culmine dell’angoscia dei due amanti.

 


 

Quando si arriva all’incontro risolutivo tra Violetta e Germont la pioggia di cash (a intravederli sembra trattarsi di  dollari), si ripete, volteggiando tra gli alberi del bosco nel quale è ambientata la scena, per scendere e depositarsi copiosa intorno agli amanti. A quel punto il divario tra la qualità musicale e testuale del melodramma e quella visuale sul palco è incolmabile. Applausi, quanto basta a chi li rivolge.

 

A Venezia l’ottobrata è nel pieno della sua godibilità e il pubblico, composto in massima parte da turisti del melodramma, vuole godersi la memorabile serata, cominciata con selfies in lungo e smoking, ai quali far da contrappunto con quelli baldanzosi, all’uscita, tra le afose calli.

 

 


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