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28/12/24 ore

L’arte virtuale, il nuovo virus. Bruno Mangiaterra all’ Apocryphalgallery


  • Giovanni Lauricella

Si avverte sempre di più nell’arte l’affermazione del digitale, al punto da travalicare quelle che nell’immaginario collettivo erano le consuete frequentazioni delle gallerie, le quali dopo il lockdown sembra che non sappiano come gestire il distanziamento dei visitatori e di fatto non aprono. Si sta così trasformando in mito il ricordo, quello che fino a poco tempo fa ci sembrava routine, cioè visitare le mostre

 

Una tra le gallerie di grande richiamo a Roma è senza dubbio l’Attico di Sargentini, dove a ogni inaugurazione si ripeteva il “c’erano tutti”, una frase detta come per dare importanza a un rito diventato segno di distinzione di chi partecipava. Andare all’Attico era come dire di essere nelle grazie di Sargentini che dagli anni ’60 è riferimento nell’arte.

 

Galleria che si trova ai piani alti di un edificio al centro di Roma, in via del Paradiso, nome di strada che stimola ironia. Infatti, come in un pellegrinaggio, a ogni inaugurazione, tutti si affannano e si accalcano a compiere la lunga salita della non larga scala condominiale, come se la presenza fosse un sacrificio dovuto alla speranza di trovare qualcosa, un fioretto che ti fa sentire un fedele, un devoto alla “scala santa dell’arte”.

 

Così, come per assurdo, salirla è come un rito propiziatorio per chi aspira al godimento dell’arte, sa di elevazione spirituale, arrivare alla sommità per trovare il Goloka, il paradiso degli Hare Krishna, dove ogni artista spera d’incontrare Surabhī, la grande vacca dispensatrice di beni, ovvero Sargentini che ti consegna alla gloria. Troppa fantasia? Forse, ma l’analogia “religiosa” viene spontanea se vi ricordate il Govinda, quel ristorante vegetariano che c’era anni fa a via dei Coronari: era la “casa spirituale” degli “arancioni”, dove godevi del loro cibo se salivi un interminabile scala che ti portava all’ultimo piano, la vetta del monte, il cielo, il “paradiso” dove ti aspettavano suonando e cantando il solito mantra gli Hare Krishna.

 

Due richiami romani diversamente mitici, posti in alto alla fine di una lunga scala che dava un’enfasi teatrale a ogni arrivo. Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare / Hare Rama, Hare Rama, Rama Rama, Hare Hare, un canto che dà la felicità sublime, come l’arte. Una confusione che appositamente propongo per sottolineare l’aspetto di un mondo diverso, al di fuori delle normali gallerie, di un’arte che non trovavi dappertutto, che L’Attico emanava, specie quando negli anni ’70 ancora stava nel grande garage di via Beccaria.

 

Una dimensione differente, un luogo dove l’arte era “fisica”. Si era oltre il quadro, oltre la scultura, si debordava, ci si trovava di fronte a mega allestimenti, si  guardavano esterrefatti grandi scenografie, “sussunzione psicologica” a Guy Debord o meglio a quello che Marx chiamava “l’individuo sociale” sia la sua sussunzione sotto lo Spettacolo.

 


 

Arte era la grande stalla con dentro i Dodici cavalli vivi, esposti da Jannis Kounellis, la performance dei tableaux vivants intitolati Zodiaco, presentata da Gino De Dominicis; era diventato arte Il mare, e qui mi riferisco all’allagamento totale della galleria ridotta a grande piscina, opera di Pino Pascali; arte come spettacolo che Sargentini riprenderà in senso più lessicale nello spazio attuale dove l’ultima sala della galleria è un teatro, piccolo ma in forma stabile.

 

È noto a tutti che da diversi anni Sargentini si dedica al teatro, coinvolgendo tanti amanti dell’arte in frequenti repliche che fanno sempre il pienone, proprio quello che per chissà quanto tempo ci mancherà a causa della pandemia (quella che i cinesi sostengono essere ormai proveniente dall’Europa). 

 

Dalla galleria, grande teatro dove accorre in massa il pubblico attratto dalla spettacolarità del luogo, come è consuetudine dell’Attico, siamo passati, per esigenze impensabili fino a poco tempo fa, a una specie di non luogo (che Marc Augé non aveva contemplato, ma che Martin Heidegger aveva ben prima intuito): quello digitale, oblio e aberrazione distorta della memoria, dove in tanti si visita a distanza uno spazio espositivo inesistente, teletrasportati come in un film di fantascienza,  ma pur sempre intenti a dire “c’erano tutti”, se si vede dalla tendina che scende di lato che la lista dei nomi è lunga.

 

La folla di gente si è trasformata in like, nel numero di visite che ha la pagina web. Così si sanno anche chi sono i partecipanti e acquista importanza la qualità della lista dei nomi dei followers.

    

Quello che prima era sufficiente avere, il telefono e l’indirizzo di una persona magari in un biglietto da visita cartaceo, adesso è il contatto Facebook o Istagram, oltre all’e-mail e al sito internet, nonché i video dichiaranti la propria arte, con una tecnica solipsistica consentita da internet che sta coinvolgendo tutti come un virus. Avevo già trattato il tema, facendo una lista dei musei visitabili in internet, un po’ come ha fatto Philippe Daverio per Mediaset con la rassegna video “Il museo aggratis”, che dietro il papillon sciorina l’arte al popolo. In realtà questa virtualità sta al vero godimento dell’arte come Carosello stava all’Italia reale negli anni ’60.

 


 

Un esempio ulteriore è Apocryphalgallery ideata da Mario Nalli, galleria  che ospita le opere degli artisti in uno spazio virtuale, con mostre mediatiche che, esenti dalla presenza reale delle persone, non subiscono l’ostacolo dei divieti imposti dalla pandemia.

 

Dallo spettacolo teatrale cui tendeva L’Attico, diventato tipico di ogni esposizione, alla galleria che non ha un indirizzo fisico ma fatta da artisti e opere vere. Apocryphalgallery è anch’essa un allestimento, una scenografia, dove Mario Nalli si è inventato degli scatoloni, al cui interno inserisce le opere in scala ridotta che magicamente vedi come ampio spazio espositivo nello schermo del computer o dello smartphone.

 

In questi giorni, fino al 27/06/2020, c’è la mostra Le poetiche del pensiero di Bruno Mangiaterra, solo su Instagram: @apocryphalgallery, con un ottimo testo critico del prof. Mariano Apa. Le opere di Bruno Magiaterra sono sculture e quadri materici di acrilico su tela fatti da un artista di lunga esperienza il cui ottimo risultato non tradisce le attese. 

 

E dopo il suo muoversi nell’arte concettuale e nell’arte povera, oggi il suo fare evolve verso un dato ancor più filosofico, maggiormente vocato a un contenuto sensibile che pare richiamare non solo quanto disse Hegel, che l’arte è la parvenza sensibile dell’idea e che tiene conto di nuove cartografie del sapere. E in questo viaggio esistenziale/culturale, oggi un’opera che l’artista titola “c’est la poésie des non lieux” svela le fasi dell’opus alchemico” - ci spiega il prof. Apa.  Prossima mostra la personale di Gianfranco Basso, l'inaugurazione è prevista il 1 luglio alle ore 19:00, con testo critico di Francesco Paolo Del Re.

 

Sì, anche qui c’è lo spettacolo, in uno schermo che può essere piccolo come quello dello smartphone, senza la teatralità di cui si parlava prima ma in modo diversamente coinvolgente. In questo caso abbiamo lo spettatore voyeur, che gode dell’arte come se guardasse dal buco della serratura, e il piccolo schermo diventa il boccascena del teatro.

 


 

L’arte immagine pura, come le tante che inondano il web, è la frontiera della nuova comunicazione, anche se è troppo presto per dirlo perché ciò includerebbe una visione pessimista sugli esiti della pandemia. Certo è che al momento un ritorno alla movida culturale che c’era fino a pochi mesi fa ancora non si avverte. 

 

Il fenomeno è ormai molto esteso anche a livello mondiale. A pensarci sta tutto nello smartphone che hai in tasca o nella borsetta. Entrati appena ieri nelle smart cities siamo ormai nello smart world.

 

Sarà questo il nuovo virus senza corona che però regnerà sovrano?

 

 


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