di Adriana Dragoni
Tra qualche settimana, nei roventi giorni della Biennale, Jan Fabre sarà a Venezia. Ma per ora mostra le sue opere a Napoli, che conosce da tempo e che dice “vibrante, energetica e bella città”. E qui si è mostrato anche di persona, faccia simpatica, sorriso aperto, camicia bianca e jeans, al vernissage della sua mostra a Capodimonte.
A Napoli le sue opere si trovano nello Studio Trisorio (Riviera di Chiaia 215 - fino al 28 ottobre), nel Museo Madre (via Luigi Settembrini 79 - fino a data da destinarsi) e nel Museo di Capodimonte (via Miano 2 - fino al 22 ottobre ). Sono creazioni molto diverse tra loro di questo fiammingo (Anversa - 1958), poliedrico artista. Che, allo Studio Trisorio, ci provoca. Con una mostra molto singolare, a cura di Melania Rossi, con cui dice “My only nation is imagination”.
Noi, persone sensibili, ci siamo scandalizzate alla notizia dei suoi cani imbalsamati (“li ho trovati sulle autostrade, a terra abbandonati lì, magari proprio da quelli che si dicono amanti degli animali” si è difeso lui)… E poi ci ritroviamo con le ali di quelle libellule che prende vive per servirsene da morte.
Nella disputa artistica tra natura e artificio, è più veritiero – sembra dire Fabre a se stesso - servirsi direttamente della natura: meglio usare proprio le ali delle libellule, piuttosto che riprodurle in pittura, cercandone la verosimiglianza. Le ali delle libellule sicuramente sono le più somiglianti a se stesse.
Ma poi qui, nello Studio Trisorio, Fabre, usando l'artificio, riproduce nella plastica, molto precisamente, le forme del cervello umano. Ecco i cervelli “artificiali” di suo padre e, più piccolino, quello di sua madre, e pure altri cervelli, più grossi, che sembrano in mostra dal macellaio per poi diventare cervelli fritti. E un accenno alla loro realtà mangereccia sembrano essere una mela su un cervello e una pera su un altro.
Ma che rapporto c'è tra il cervello che abbiamo nella testa e le idee che ne vengono fuori? sembra domandarsi Fabre. Che diventa piuttosto concettoso in un filmato, da lui creato, in cui prende in giro noi e se stesso, comparendovi insieme a Giacomo Rizzolati, lo scienziato scopritore dei neuroni a specchio, quelle cellule del cervello che si attivano osservando e copiando il movimento di altre persone.
Fabre stesso, e pure Rizzolati, sembrano scherzarci su, mostrandosi nel filmato con una sorta di antenna dondolante sul capo. Insieme, l'artista e lo scienziato, vanno discutendo di neuroni che secernono i nostri pensieri. Sembra che le nostre idee e anche il nostro comportamento, cioè noi stessi, dipendano dalla materia del nostro cervello. Ma le cose stanno proprio così? Oppure materia e spirito, entrambe energia, sono due realtà parallele, per cui l'una non è causa dell'altro?
La scienza occidentale studia la materia e calcola le sue misure: essa è soprattutto misura di fenomeni materiali. Ma c'è anche chi considera uno spazio più ampio e contempla il pensiero più assurdo. È l'artista. È quello che assurdamente fa ciò che razionalmente non si può fare: come calcolare con precisione la misura mutevole delle nuvole.
E allora, sul terrazzo del Museo Madre, in alto su una scala, compare “L'uomo che misura le nuvole” (“The man who measures the clouds- 18 years older” è la mostra curata dal direttore Andrea Viliani, da Laura Trisorio e da Melania Rossi). È un uomo tutto d'argento lucente, dorato dai raggi del sole. Ha le braccia alzate e nelle mani un metro con cui cerca di misurare le nuvole. Come quella nuvoletta bianca, un po' sfrangiata, che ora sta passando sull'azzurro del cielo. L'uomo d'argento rimarrà sul terrazzo non si sa fino a quando, giacché è stato dato al Madre in comodato d'uso. Ma poi se ne andrà chissà dove, lasciando in chi lo ha visto il ricordo di una magica apparizione.
Ed eccoci a Capodimonte. E ancora con la dicotomia di naturale e artificiale: “Naturalia e Artificialia” è il titolo della mostra di due opere di Fabre.
In un grande quadro, “Raylway tracks to Death” Jan Fabre rappresenta la controversa conquista del Congo Belga. La rappresenta simbolicamente, servendosi del logo della compagnia ferroviaria dell'ex Zaire, al centro del quale immette una forma suggerita dal mostruoso mondo immaginario del fiammingo Hieronymus Bosch (Hertogenbosch-1450/1516). In questo quadro c'è l'affermazione di un Potere, la grandiosità di un'impresa, le tenebre della morte e la luce della gloria. Per esprimere tutto questo, Fabre gioca anche sull'effetto-colore.
Qui è un colore singolarissimo, un verde profondo, cangiante e lucente, che vira dallo scuro al chiaro senza linee distintive. Irrealizzabile per mezzo dei normali colori. E infatti è realizzato con gusci di scarabeo, insetto sacro agli antichi egizi, rappresentante l'eternità. Tanti piccoli scarabei morti, come i pigmei dello Zaire.
L'altra opera è “Spanish Sword – Knight modesty”, una grande spada spagnola che ricorda l'investitura dei cavalieri antichi, come Lancelot, uno degli eroi amati da Fabre. Anche qui l'opera è fatta da gusci di scarabei e dall'artificio dell'arte, quasi da mosaicista, del Maestro. Il colore verde scuro, il nero e il dorato qui si dispongono a strisce distinte, per ornare questa bellissima spada, simbolo di guerra e di coraggio.
Accanto a questa opera, i curatori, Laura Trisorio, direttrice dello Studio omonimo, e Sylvain Bellenger, direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte, hanno posto due magnifici antichi oggetti di cuoio: una rotella da parata di fattura indiana e un frontale per cavallo lavorato in Italia. Oggetti molto belli per la loro forma elegante e la lavorazione accurata. La loro bellezza celebra la guerra, la sua sacralità fatta di dignità, coraggio e fede. Un tempo anche la guerra era sacra. Oggi, nel mondo occidentale c'è, invece, non solo la dissacrazione della guerra ma anche di ogni cosa e di ogni azione. Nulla sembra oggi essere sacro, avere un valore profondo.
Questa mostra a Capodimonte è inserita nel programma “Incontri sensibili”, che consiste nell'incontro ravvicinato tra opere di epoche diverse. In modo che, dal confronto, più chiaro appaia il carattere di ciascuna.
Ed ecco quattro teche con degli strani oggetti. Sono le Mirabilia Naturalia e Artificialia, oggetti rari che destavano meraviglia e che un tempo, soprattutto nel Cinquecento e nel Seicento, venivano conservati nelle wunderkammer, stanze o scatole atte a contenerli. Gli oggetti meravigliosi qui presenti appartengono alla collezione Farnese, a quella Borbonica e al Museo Borgiano di Velletri.
Le teche hanno uno sfondo di colore verde, lodato, come espressione della raffinata sensibilità dei curatori, dal direttore del Madre Andrea Viliani, che qui è stato da spettatore. Tra gli oggetti rari ci sono un calice lavorato a sbalzo ricavato dal corno di un rinoceronte, il rostro di un pesce-sega, preziose lavorazioni in avorio... e così via. In proposito, Bellenger ha osservato che quasi tutti questi oggetti sono stati resi possibili dalla morte di qualche essere vivente. A volte dalla morte nasce la bellezza.
La mostra di Jan Fabre a Venezia, nell'abbazia di San Gregorio, si intitola “Glass and Bone sculptures”, ( “Sculture di vetro e di osso”). Ancora una volta la dicotomia: Naturalia e Artificialia.
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