Un uomo pio gira tutto l’anno (ma più intensamente nel periodo estivo) in una carrozza trainata a fatica da un cavallo stanco per vendere nelle varie fiere volumi e volumetti di preghiere, invocazioni e suppliche per i giorni di digiuno e di lutto.
Si chiama Mendele, soprannominato Mendele il libraio, proprio per il mestiere che svolge, ed è la principale voce narrante, nonché, in un certo senso, l’alter ego dell’autore - Mendele Moicher Sfurim - di “Fishke lo Zoppo”, pubblicato dalle Edizioni Marietti.
Il venditore ambulante, che conosce bene tutti gli shtetl (i piccoli villaggi a maggioranza ebraica nell’Europa orientale) periodicamente visitati, incontra per caso lungo la strada fra un paesino e l’altro un suo collega e rivale in affari, Alter Jaqnhaz.
I due rimangono bloccati a causa di alcune disavventure e per passare il tempo intavolano uno scambio alternato fra risse verbali e lunghe conversazioni amichevoli.
Solo nell’undicesimo capitolo compare il terzo personaggio, nonché il vero protagonista della storia raccontata, colui che dà titolo al romanzo. Il povero giovane zoppo ha una moglie cieca, con la quale va di casa in casa per racimolare le elemosine: “Io e mia moglie appartenevamo alla fanteria. Eravamo cioè mendicanti a piedi. Nu, ora voi potete comprendere quanto lentamente noi procedessimo a motivo della mia gamba malata: strisciavamo come granchi”.
Nella speranza di potersi arricchire, quindi, lei lo convince ad unirsi ad un gruppo di “shnorrer”, di mendicanti di professione che si sposta in un carro da un villaggio all’altro. Il capobanda, che è un profittatore senza scrupoli, con adulazioni a lei e maldicenze sul marito, circuisce la donna cieca, la quale a sua volta inizia a trattar male il proprio consorte per poi allontanarsene e seguire lo sfruttatore.
La situazione per Fishke, dunque, contrariamente a quanto sperava, peggiora notevolmente; nella bizzarra combriccola, però, c’è anche una gobba poco più che adolescente, abbandonata dal padre e in seguito anche dalla madre, che è vittima di ogni sopruso da parte dei “colleghi” e compagni di viaggio più scaltri.
Fishke se ne innamora e chiede il divorzio alla moglie per scappare con la ragazza, ma anche in questo caso gli succede qualcosa che non aveva previsto: la compagnia lo abbandona, lasciandolo a piedi e portandosi dietro sia la cieca che la gobba.
Le disavventure dello zoppo proseguono fra alti e bassi fino ad un lieto fine – per quanto possibile – anche questo del tutto inaspettato.
L’autoironia che permea l’intera lettura è la stessa che si può trovare anche nell’altro romanzo di Mendele Moicher Sfurim, “I viaggi di Beniamino terzo”, già recensito per questa testata: i protagonisti, poverissimi, ingenui ma intraprendenti, cercano di migliorare le proprie miserevoli condizioni, spesso senza riuscirci. Gli uomini sono succubi delle loro mogli, di solito aggressivamente dominanti, più scaltre, attive e lungimiranti.
È la stessa verve che genera e anima il witz, il motto di spirito ebraico ben descritto da Sigmund Freud, che “gioca” con la meta comunicazione, che capovolge gli schemi comuni, che avvicina gli opposti fino a raggiungere l’assurdo.
In Fishke lo zoppo, ad esempio, i difetti fisici, non sono motivo di scherno, compassione o ribrezzo, ma al contrario un’importante risorsa da sfruttare: più sono gravi e più sono apprezzati e perfino desiderabili perché più efficaci nel suscitare compassione in chi può elargire elemosina.
I miserabili imprecano contro il divino e la malasorte (senza scadere nel volgare o nel blasfemo) ma al contempo mostrano rassegnazione e perfino gratitudine e apprezzamento per ciò che ricevono nella vita.
Quando invece potrebbero trovare facilmente motivo per gioire, ecco allora, che si abbandonano alla tristezza e al pianto: “Non appena inizia a risplendere il sole luminoso dell’estate e nei campi gli uomini sembrano come rinascere a nuova vita, rallegrandosi in cuor loro nell’osservare il mondo meraviglioso che Dio ha creato, proprio in quel periodo comincia per gli ebrei il tempo più triste dell’anno: essi moltiplicano i lamenti, mentre lacrime traboccano dai loro occhi”.
Un’altra nota importante di questo romanzo (ma anche di altri nello stesso filone) è che nonostante le miserrime condizioni in cui versavano gli shtetl nel secoli passati fino alla loro totale distruzione da parte della furia nazista – condizioni così ben descritte dal nostro autore - i sentimenti negativi, quali odio, invidia, gelosia sono del tutto assenti o stemperati dai loro opposti e/o dalla speranza e dalla fiducia in un futuro migliore.
Da qui si potrebbe trarre un insegnamento morale sempre attuale e sul quale varrebbe la pena riflettere.
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