Con sentenza del 12 aprile 2022 i magistrati del massimo organo di giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato, hanno negato l’accesso ai documenti per sapere perché il governo richiamò i 400 soldati inizialmente inviati, fra il 5 e l’8 marzo 2020, a chiudere la “zona rossa” di Nembro e Alzano Lombardo. L’atto contraddice i TAR che si erano invece pronunciati in favore della richiesta avanzata in tal senso dai legali dei parenti delle vittime di Covid. Un ulteriore esempio di come l’esercizio della giurisdizione sia esposto, in Italia, a interpretazioni che pregiudicano la certezza del diritto e di come sovente le determinazioni prese sconfinino dai limiti giurisprudenziali per ricollegarsi a motivazioni di altro genere.
Fenomeni questi che giocano un ruolo non indifferente nel calo di credibilità degli organi giudiziari agli occhi dei cittadini. È questo l’effetto più preoccupante della crisi della giustizia nel nostro Paese, perché mina un caposaldo fondamentale dello Stato quale è la magistratura e la sua indispensabile funzione. Se ne dice convinto il professor Sabino Cassese nel saggio Il governo dei giudici, appena uscito per i tipi di Laterza. L’autore rileva che, pur risultando al centro dello spazio pubblico, oggi la magistratura italiana vive una crisi profonda che deriva, soprattutto, dalla deludente prestazione sul piano dei risultati effettivi. I sei milioni di procedimenti arretrati, gli abusi spesso impuniti e i ritardi che negano di fatto giustizia alle vittime sono tutti elementi che hanno contribuito a offuscarne il ruolo. Scrive Cassese:
“L’immagine pubblica del magistrato, quello giudicante e il procuratore, dopo aver raggiunto, dagli anni ’90 in poi, un diffuso e spesso ingiustificato prestigio (il giudice come angelo sterminatore della corruzione), è oggi… nettamente declinante: scarsa fiducia del pubblico nella sua imparzialità ed obiettività; imprese in balia delle procure e giudici che «soffocano l’economia»; comportamento riprovevole di alcuni magistrati, che danno l’impressione di potersi permettere nell’esercizio delle funzioni pubbliche loro affidate tutto, o quasi (scarsa produttività, carriere parallele, legami con giornalisti e protagonismo nei media, intrighi, lotta tra correnti e gruppi di potere per l’assegnazione dei posti, vendette, familismo, rancori), abusando anche dell’organo diretto a salvaguardare l’indipendenza, il Consiglio Superiore della Magistratura”.
All’origine di questo decadimento va individuata la sua trasformazione, intervenuta nel corso del tempo, da “ordine” a “potere”. Un potere che, secondo Cassese, “appare esercitato in modo tanto arbitrario da richiedere che i cittadini si difendano da esso”. Una situazione al limite, visto che dalla magistratura sarebbe normale attendersi la difesa dal sopruso e dalle sopraffazioni. Se ciò è potuto accadere, si deve al fatto che l’indipendenza dei magistrati si è trasformata in autogoverno, quando il CSM da organo a difesa dell’indipendenza della magistratura ne è divenuto il “vertice organizzativo”.
In tal modo, chiarisce il giurista, “da una funzione negativa ha assunto una funzione positiva”, finendo per svolgere “un ruolo consultivo, propositivo e infine di vero e proprio veto sugli affari di giustizia, spesso fino a sostituirsi al Parlamento, oltre che di indirizzo sull’esercizio dell’azione penale, diventando una brutta copia del Parlamento, un meccanismo para-parlamentare. L’autogoverno… si è a sua volta trasformato, o, meglio, è degenerato, per cui «sembra affermarsi una concezione proprietaria della funzione giudiziaria da parte della magistratura» [cit. L. Violante, in «La Stampa», 1/6/2019]. La magistratura, da guardiana della legalità, è divenuta guardiana dei propri poteri”.
Una degenerazione che ha condotto ad assumere quasi un carattere “castale” e a far sì che la magistratura acquistasse sempre maggiori quote di sovranità, anche in termini di influenza sulla politica e sulle scelte di governo. La commistione con gli organi di governo ha fatto sì che la magistratura divenisse componente non irrilevante della “governance” nazionale: un fenomeno accentuatosi negli ultimi venticinque anni che, oltre a evidenziarsi nell’assunzione di incarichi da parte di molti magistrati nell’esecutivo, trova nell’occupazione dello spazio pubblico attraverso l’amplificazione mediatica l’esito manifesto di un protagonismo debordante i ruoli istituzionali originari. Citando Mauro Calise, il saggio descrive così il processo in corso: “La giuridificazione della politica e, per converso, la politicizzazione dell’azione giudiziaria diventeranno la chiave dei passaggi più importanti di questa fase della storia repubblicana”.
Nell’esaminare i rapporti fra magistrati e politica Cassese osserva come, in quanto “partecipe delle logiche decisionali di tipo politico”, ciò contribuisca a pregiudicarne l’imparzialità e la stessa indipendenza. Con ripercussioni sulla salvaguardia dello stesso Stato di diritto di matrice liberale, perché “Questa palese violazione del principio della divisione dei poteri comporta uno squilibrio tra politica e giustizia, una «dilatazione del ruolo del giudice», dovuta anche alla politica stessa, sia perché ha moltiplicato le figure di reato e aumentato le pene, sia perché ha delegato alla magistratura il contrasto della mafia. Di qui «la contiguità e la concorrenza con la politica», «inchieste gestite in modo politico», assenza della politica, che «non fa le riforme perché ha paura delle reazioni della magistratura» [cit. C. Nordio, in «Libero», 3/5/2021]”.
Nella Costituzione ci si era preoccupati di difendere i magistrati dagli eventuali condizionamenti politici, garantendone la massima indipendenza. Di fronte allo squilibrio di poteri determinatosi in questi anni, uguali garanzie non sono previste per garantire dalle invasioni di campo della magistratura contro la politica e l’esecutivo. Di qui la domanda cruciale che si pone nel libro: “chi garantisce i cittadini nei confronti degli organi di garanzia?”.
Nella politicizzazione dei magistrati, l’ex giudice costituzionale Sabino Cassese individua tre gravi inconvenienti. Oltre al più ovvio di compromettere il principio di imparzialità al cospetto dei cittadini, si aggiungono il dubbio che l’attività da magistrato risponda piuttosto alle sue aspirazioni da politico e la convinzione che così il ruolo di rappresentanza del CSM diventi ridondante, perché sostituito dall’ingombrante presenza dei magistrati sulla scena pubblica. Uno stato di cose particolarmente gravido di conseguenze negative sull’azione inquirente dei pubblici ministeri, che hanno oggi un ruolo prominente oltre misura nell’ambito giudiziario.
Di ciò il saggio di Cassese offre una lucida disamina, elencando le numerose storture determinatesi da quando le procure si sono assunte compiti da giustizieri, a discapito del principio di legalità. È ormai prassi costante soprassedere dalla presunzione di non colpevolezza – espressamente prevista dalla Costituzione – come pure invertire l’ordine delle indagini, partendo dalla ricerca dei reati anziché dalle prove che li dimostrano. Altrettanto pregiudizievoli sono l’utilizzo smodato delle intercettazioni a strascico, spesso “eludendo la garanzia della riserva di legge”, e il ricorso alla carcerazione preventiva allo scopo più di ottenere confessioni che non di scongiura-re effettivi pericoli per le indagini o la società.
Ma lo strumento decisivo che attribuisce vero potere ai procuratori è individuato da Cassese in quella sorta di joint venture creatasi tra gli uffici degli inquirenti e i cronisti giudiziari. L’intreccio di reciproci interessi fa montare un “populismo giudiziario” utile per mettere alla gogna chiunque possa essere d’ostacolo: rivolgendosi direttamente all’opinione pubblica, attraverso la pratica che gli anglosassoni chiamano di naming and shaming (stigmatizzare gli indagati ancor prima del processo), ai singoli procuratori si concede così una oggettiva rilevanza politica che fa reclamare a un ex magistrato comeLuciano Violante, citato nel libro, la necessità che “le carriere da separare rimangono quelle tra giornalisti e pubblici ministeri”.
A fronte di questo debordare della funzione inquirente non corrisponde, tuttavia, un reale contrasto degli atti criminosi o della corruzione diffusa. Lo dimostrano le conclusioni alle quali è pervenuto il presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi, secondo il quale oltre il 75% degli inquisiti oggetto di indagine, al momento del giudizio dopo un arco temporale di circa quattro anni, escono senza conseguenze dai processi perché innocenti. Nel suo saggio, Cassese riporta integralmente la stima del presidente del Tribunale che, se fosse estesa su base nazionale, produce risultati davvero sconcertanti: “ogni anno abbiamo almeno 150.000 indagati poi imputati che attendono almeno 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti all’esito del primo grado; 1.500.000 ogni 10 anni. Con questo trend ne mandiamo a processo in 50 anni oltre 7 milioni che verranno assolti all’esito del primo grado”.
I caratteri peculiari della situazione italiana, dove abbiamo “una magistratura… più presente nello spazio pubblico e meno capace di dare giustizia”, hanno determinato una condizione per la qual l’ordine giudiziario, anziché svolgere un ruolo di correzione, “contribuisce invece ad alimentare i mali che dovrebbe correggere”. Questi ultimi possono sintetizzarsi in tre fattori: una produzione legislativa esuberante, portata a prescindere dal criterio della generalità della norma per indirizzarsi su norme-provvedimento specifici, che aumentano soltanto l’incertezza del diritto; la prevalenza su altri dei temi morali, di cui sono investiti i magistrati di fatto operanti come “longa manus della politica moraleggiante”; la tendenza del corpo dei magistrati di avvalersi della sponda politica e viceversa, realizzando così uno scambio che avviene attraverso l’uso dei media a sua volta essenziale per garantire notorietà e aprire opportunità di carriera, anche in politica.
Il saggio di Sabino Cassese ha il merito di aver indicato con chiarezza e senza preconcetti i limiti e i guasti della giustizia in Italia. Sconforta alquanto che l’impegno riformatore del governo Draghi, attraverso le proposte avanzate dal Guardasigilli Marta Cartabia, li abbia in pratica elusi, evitando di affrontare e risolvere i nodi problematici ormai da tempo acclarati. Non solo la legge delega in discussione alla Camera riguarda un aspetto quanto mai circoscritto come la formazione del CSM, ma le modifiche introdotte appaiono quanto meno inopportune (si veda l’aumento dei suoi membri) se non del tutto inutili. Nessuna delle esigenze presenti nella società italiana a proposito del “servizio giustizia” sembra essere stata presa in considerazione.
Per questo motivo l’appuntamento dei cinque referendum mantiene intatta la sua rilevanza, perché consente di mettere al centro del dibattito pubblico la questione giustizia e di promuovere un impulso rifor-matore che altrimenti resterà soffocato. Lo stesso autore de Il governo dei giudici, Sabino Cassese, lo ha riconosciuto nella conversazione del 21 aprile col direttore Giuseppe Rippa di «Agenzia Radicale», allorquando ha concluso con queste parole: «Sì al referendum, teniamo presente che è nostro diritto-dovere esercitarlo. Sì a quei referendum che possono affrontare direttamente un problema e sì anche a quelli che possono svolgere una funzione di promozione, perché la classe politica e il Parlamento si muovano verso la direzione presa da parte del popolo...».
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