Cos’è l’uomo rispetto al tempo e rispetto al cosmo? Cosa può conoscere? Cosa deve fare e cosa gli è consentito sperare? Queste quattro sono in sintesi le domande che si pose Kant e che Martin Buber analizzò in un corso tenutosi all’Università ebraica di Gerusalemme nel 1938.
Queste lezioni vennero raccolte dallo stesso pensatore, esule dalla Germania nazista, in un libro pubblicato per la prima volta in ebraico nel 1942, in inglese e tedesco nel 1947, in italiano nel 1972 e recentemente riproposto dalla casa editrice Marietti con un’introduzione di Irene Kajon.
Buber, partendo da Aristotele e arrivando fino ai filosofi all’epoca più recenti, mette a confronto diverse visioni anche dal punto di vista religioso e sociologico.
L’uomo, spiega l’autore, è l’unico essere vivente capace di riflettere su se stesso e dunque di porsi dei problemi davanti ai quali egli si sente solo. Soltanto prendendo coscienza di questa condizione, riesce ad incontrare prima se stesso e poi a mettersi in relazione con gli altri, con la Natura e con la Divinità. Egli è nel mondo che, secondo i Greci e Aristotele in particolare, è un luogo chiuso in cui l’uomo ha uno spazio ben definito.
Questa concezione si sgretolò con il cambiamento della visione cosmologica e sette secoli dopo, venne ripresa e rielaborata da Agostino il quale sosteneva che l’essere umano era “senza dimora e solitario tra potenze inferiori e superiori”. Venne così messa in secondo piano la contemplazione della natura a vantaggio della fede che rese ancora più chiuso il “cosmo cristiano”, considerato anche in relazione al “tempo finito della Bibbia” a sua volta “ricondotto a una dimensione cristiana”, nel cui centro vi è la morte di Gesù che coincide, “in quanto protettrice e redentrice, con il centro dello spazio, il cuore del povero peccatore”.
Buber prosegue con l’analisi di come altri filosofi successivi affrontarono il problema dell’uomo in quanto uomo presente entro determinati confini. Concetti che naturalmente subirono modificazioni parallelamente all’abbandono del pensiero geocentrico e i cui primi e più importanti esponentifurono Pascal e Spinoza.
Al primo rispose appunto Kant con la sua “Critica della ragione pura” fornendo la speranza anche allo stesso Buber che, da adolescente, iniziò a sentire un’”inesplicabile necessità interiore” di “cercare reiteratamente di rappresentare un confine dello spazio oppure la sua mancanza di confine, o ancora, un tempo che comincia e che finisce, oppure un tempo senza cominciamento e senza fine”.
Esigenza che lo portò a scoprire l’opera kantiana “Prolegomeni ad ogni futura metafisica”. Leggendola si sentì sollevato dalla costrizione “di cercare di rappresentare una cosa non rappresentabile e il suo opposto ugualmente non rappresentabile” e si accorse che l’eterno è “tutt’altra cosa dall’infinito, così come esso è totalmente diverso dal finito e che può esserci, pur tuttavia, una connessione tra me, l’uomo, e l’eterno”.
Ritornando dunque alla domanda “cos’è l’uomo”, Kant invitò a cercare di darsi una risposta come “un compito che egli proponeva a se stesso e la cui soluzione doveva tener dietro” a quella delle altre tre questioni”. Hegel da giovane meditò su questo per abbandonare più tardi l’idea della centralità dell’uomo ed eliminare le due domande su cos’è e cosa può egli sapere.
Sul filosofo settecentesco Buber si sofferma a lungo, confrontando le sue idee con quelle di Feuerbach, Nietzsche e Marx. Anche ad Heidegger dedica molte pagine, mettendolo in relazione con Kierkegaard e riflettendo sul rapporto con Dio.
Come si può facilmente intuire è un libro piuttosto complesso specialmente per chi non è filosofo, ma che affronta comunque importanti considerazioni che varrebbe la pena approfondire.
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