Nel settembre del 1944 i genitori del trentottenne Jo Koopman sono già stati deportati e uccisi ad Auschwitz da due anni, sua moglie, Cristiana, e i suoi cinque figli sono al “sicuro” sotto falsa identità in una cittadina nella provincia di Utrecht.
Lui, entrato nella resistenza, più specificatamente nella produzione di documenti falsi e nella ricerca di rifugi per i perseguitati, viene arrestato a luglio dai fascisti olandesi e deportato al campo di transito di Westerbork, l’equivalente di Fossoli da dove verrà caricato, due mesi dopo, sull’ultimo convoglio per Birkenau.
Dalla sua esperienza in Polonia e del rocambolesco rientro a casa, nasce “La notte di Auschwitz” pubblicato dalle Edizioni Dehoniane, con l’introduzione di Piero Stefani.
Un diario molto breve e lucido, scritto appena tornato nel suo Paese natìo tra la fine del 1945 e gli inizi dell’anno successivo - che fu tradotto in inglese soltanto nel 1975 - in cui il presente si alterna spesso al passato prossimo e remoto, segno evidente di quanto i traumi vissuti fossero in quel periodo (naturalmente) ancora vividi.
Nonostante questo, però, i toni sono asciutti e Koopman si sofferma razionalmente più sui dettagli “tecnici”, in una sorta di resoconto quasi distaccato, senza scendere in profondità come per esempio fanno Primo Levi o altri illustri sopravvissuti.
La sua testimonianza è tuttavia importante, come lo è quella di chiunque abbia sperimentato sulla propria pelle la persecuzione e i campi di sterminio nazista, sia per ricordare che dietro i “numeri" e la “grande Storia” ci sono state persone vive che hanno sofferto l’indicibile e milioni di esse sono state sadicamente torturate e uccise, sia anche perché, a parte Anna Frank, Etty Hillesum e non molti altri, ben poco si parla della Shoah olandese. Almeno in Italia.
Koopman riserva infatti particolare attenzione ai suoi connazionali: li cerca quando ha bisogno di un po’ di conforto e di sfuggire dai polacchi della sua baracca “spesso molesti”; si interessa della loro sorte; dopo la liberazione confeziona, insieme ai suoi amici e come gli ex prigionieri di altri Paesi, una bandiera “che ci avrebbe accompagnato nel viaggio per migliaia di chilometri, sventolandola dal treno da Katowice fino a Odessa e dietro la quale avremmo sfilato per le strade, la stessa bandiera che ci seguì poi sulla nave fino a Marsiglia.
Quella bandiera, tante volte rammendata e malconcia, ci legò e ci accomunò per due mesi facendo di noi un’unica cosa.”. Quando non è con loro egli specifica la nazionalità delle persone con cui ha a che fare, siano esse delle vittime come lui, o dei salvatori come i soldati e le soldatesse sovietici di cui parla sempre bene o ancora delle associazioni umanitarie impegnate nell’organizzazione dell’assistenza e del rientro dei profughi, come per esempio la “Croce Rossa polacca”, la “Croce Rossa inglese”: “I polacchi che avevano combattuto a fianco dei russi si distinguevano dal berretto con l’aquila polacca al posto della falce e martello sovietici. Avevano compiti di polizia, decidevano i rastrellamenti e il controllo degli stranieri; di preferenza prendevano di mira gli italiani, ma lasciavano tranquilli di Hollanski”.
Un’altra nota interessante è che il racconto della liberazione e del viaggio di ritorno è più ampio e forse dettagliato di quello dedicato al vissuto nel campo, nonostante “non fu toccante, ma, ben deludente, dopo un viaggio così lungo e pieno di emozioni il nostro arrivo in Olanda; preferiamo per questo tacerne. Il nostro gruppo si sciolse, ognuno solo ormai con i suoi problemi.” Anche questo, come nota Piero Stefani, ricorda il finale della Tregua.
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