Qual’è la concezione che la sinistra ha degli ebrei? Sono essi una minoranza oppressa da difendere e dunque un alleato nella lotta all’emancipazione dei popoli, oppure un ostacolo perché rivendicano la propria identità specifica?
Partendo da queste domande, Alessandra Tarquini, docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma ripercorre nella sua ultima ricerca: “La sinistra italiana e gli ebrei”, pubblicata dalla Società Editrice Il Mulino, la lunga e variegata storia di questo rapporto così complesso e altalenante.
La dettagliata analisi inizia con una breve introduzione sull’emancipazione proclamata dall’Assemblea costituente durante la Rivoluzione francese grazie alla quale finalmente dopo secoli di emarginazione e discriminazione, gli ebrei ottenevano l’uguaglianza dei diritti e dei doveri come individui e sulla condizione ancora fortemente persecutoria degli stessi nell’Europa orientale.
Il partito socialista italiano che nacque nel 1892, fu decisamente influenzato dal dibattito cominciato quasi un secolo prima, ma che era ancora in essere, e nel quale si possono individuare quattro posizioni da cui presero ispirazione i fondatori dell’epoca: quella degli esponenti del socialismo e del naturalismo, Fourier e de Toussenel, perché, come spiega l’autrice, sebbene non riscossero molta fortuna nella sinistra europea, dimostrano “come l’antisemitismo moderno nacque nella cultura politica della sinistra e non in quella della destra”; quella di Karl Marx che nel suo “Sulla questione ebraica” usò, rilanciandoli, atavici pregiudizi di matrice religiosa che costituirono la base delle violenze antisemite successive definendo gli ebrei “un popolo egoista, schiavo del denaro, simbolo di un mondo da superare”; quella di Moses Hess sull’importanza della creazione di uno Stato, poiché dava la possibilità agli ebrei di tutto il mondo, ma soprattutto a quelli dell’Europa orientale, di iniziare una nuova vita da cittadini liberi e padroni del proprio futuro in una società di stampo socialista; la quarta ed ultima, quella secondo cui l’antisemitismo era un residuo retrogrado, definito anche come il “socialismo degli imbecilli”, che sarebbe stato superato con il progresso e l’internazionalismo, ovvero con l’eliminazione di qualunque elementonazionalista o di altra specificità.
Il dibattito si infervorò ulteriormente due anni dopo, quando scoppiò il caso Dreyfus, e ancora di più, dal 1897 in poi, con la nascita del movimento sionista: i socialisti, con l’eccezione di alcuni ebrei, espressero la loro contrarietà alla costituzione di un focolare, fino a negare l’accesso all’Internazionale, nel 1906 e nel 1908, al movimento operaio ebraico nato in Ucraina, Poalei Zion.
Il libro prosegue toccando tutte le tappe fondamentali successive: la dichiarazione Balfour, il fascismo, le leggi razziali, le persecuzioni e lo sterminio, il dopo guerra, la fondazione dello Stato di Israele, i conflitti con i Paesi arabi, il processo ad Eichmann, i rapporti tra i partiti italiani e gli omologhi israeliani, fino alla svolta della sinistra con la trasformazione del PCI, esattamente un secolo dopo, nel 1992.
L’autrice esamina le dichiarazioni, i documenti e gli organi di stampa dei vari partiti dall’estrema sinistra extraparlamentare, compresi i movimenti vicini ai centri sociali, a quella riformista e ai socialdemocratici.
Un’analisi chiara ed equanime, condotta in maniera scientifica da una docente che, pur dichiarandosi apertamente di sinistra, così come lo è tutta la famiglia da cui proviene, non risparmia critiche alle diverse correnti italiane pur non facendo sconti ai politici israeliani.
Una lettura interessante ed importante anche per capire la realtà più recente.
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