Nelle guerre degli ultimi cento anni, si sa, i primi a soffrire, sono stati e sono tuttora i civili. Tra questi, non sono stati un’eccezione molti di quegli stessi tedeschi e austriaci che favorirono o non ostacolarono l’ascesa di Hitler alla formazione e guida del Terzo Reich. Ne è testimone diretta Helga Schneider che, sebbene all’epoca fosse solo una bambina piccola, subì traumi indelebili.
A soli quattro anni, infatti, fu abbandonata dalla propria mamma la quale si arruolò volontaria nelle SS per diventare una guardiana del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Helga è cresciuta in parte con i nonni paterni e nell’ultimo quarto di secolo si è dedicata alla scrittura.
L’ultimo suo libro, “Per un pugno di cioccolata e altri specchi rotti” è stato pubblicato recentemente da Oligo Editorenella collana Oro ed è dedicato, appunto, alle vittime sue concittadine: una raccolta di brevi racconti nei quali i protagonisti sono tra i più svariati, ma quasi tutti appartenenti a categorie fragili e indifese: giovani, giovanissimi, anziani, invalidi.
Persone semplici, che potremmo incontrare ovunque anche oggigiorno, che si trovano, loro malgrado, a subire violenze o ad essere la causa di morte di altri esseri umani, spesso della stessa famiglia o amici e vicini di casa: una ragazzina educata, solerte e servizievole che per ingenua spontaneità e fame – quella fame terribile che solo in guerra si può provare - casca nella trappola di un’astuta ed impietosa spia.
E poi uno scrittore famoso che non ha mai avuto il coraggio di rivelare il suo passato e le sue debolezze e che poco prima di morire incontra la discendente di una persona che ha umiliato e abbandonato di fronte alla deportazione nei campi di sterminio; un bambino tedesco che dopo aver assistito alla morte della mamma, rimane completamente solo al mondo e che viene salvato da un soldato sovietico.
E ancora un anziano (almeno per quei tempi) e un ragazzino che scappano dal reclutamento coatto, il cosiddetto Volkssturm (assalto popolare) voluto da Hitler alla fine del 1944 - quando ormai era chiaro che la Germania avrebbe perso la guerra - per “difendere la capitale ‘fino all’ultimo uomo e l’ultima cartuccia’”.
Ecco un soldato russo che uccide un suo compagno per difendere una ragazza tedesca che hanno entrambi violentato, ma di cui il primo si è innamorato.
Dei primi dieci racconti almeno una parte sono chiaramente di fantasia, ma molto verosimili, mentre gli ultimi due, particolarmente intensi e toccanti, sono strettamente autobiografici. La penultima storia riguarda, infatti, il rapporto fra l’autrice e suo fratello Peter, il quale, nonostante sia comunque arrivato all’età adulta, non è mai riuscito a rielaborare il trauma subito nella primissima infanzia dall’abbandono della mamma.
Trauma che, insieme a quello della guerra, dei bombardamenti – e delle relative conseguenze - subito da altri milioni di bambini in tutta Europa, lo ha portato a decenni di alcolismo, di degrado e infine ad una morte tragica e prematura.
L’ultimo, altrettanto struggente, è ancora più personale: i tentativi di Helga di ritrovare la sua mamma biologica e ristabilire con lei un contatto umano, falliti proprio a causa dell’irriducibile dedizione, da parte dell’ormai anziana genitrice, all’ideologia e alla causa nazista e della sua cinica incomprensione per la violenza inferta e per il dolore causato negli altri.
L’invenzione, dunque, si intreccia con la storia reale, ma in tutti e dodici si percepiscono nettamente non solo le profonde sofferenze di molte delle persone coinvolte, ma anche il cinismo di alcuni, i sensi di colpa di chi si è lasciato coinvolgere in progetti di morte suo malgrado o senza opporre resistenza, lo sconvolgimento degli animi più sensibili (compresi quelli degli animali), la confusione della linea di confine tra amico e nemico, fino ad arrivare ad un vero e proprio ribaltamento che crea situazioni pressoché kafkiane.
Una testimonianza fondamentale, quella di Helga Schneider, che porta all’attenzione e alla riflessione del grande pubblico anche i traumi subiti dai figli e nipoti dei gerarchi nazisti divisi tra il naturale amore filiale (o quantomeno la curiosità e il desiderio di risalire alle proprie origini) e l’etico rispetto per gli altri esseri umani.
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