Nonostante l’enorme penuria di mezzi finanziari e i seri problemi di logistica, l’emanazione delle leggi razziali del 1938 non fiaccarono le comunità ebraiche che con la loro resilienza e ammirevole capacità organizzativa dimostrarono enormi vitalità e spirito di adattamento e di iniziativa.
Questa è la sensazione principale che si prova leggendo il volume “Le classi invisibili. Le scuole ebraiche in Italia dopo le leggi razziste (1938-1943)” di Daniel Fishman pubblicato dalla Casa Editrice Il Prato: risultato di una lunga ricerca non solo negli archivi di Stato e delle Comunità ebraiche, ma anche tra coloro che, nell’ambito scolastico, ne furono vittime.
Se le istituzioni pubbliche in gran parte le applicarono alla lettera, rendendosi complici dell’infamia e se la popolazione le accolse con una certa indifferenza, quando non addirittura con approvazione, tra i singoli ebrei ci fu soprattutto sconcerto e delusione: solo settant’anni prima erano stati emancipati con l’apertura dei ghetti e la fine delle vessazioni, ma in quei pochi decenni tanti ebrei avevano dato contributi enormi in tutti i settori della società.
Molti ne rimasero dunque scioccati e amareggiati (alcuni arrivarono al suicidio), altri, appellandosi ai meriti conseguiti negli ambiti militari, culturali o pubblici, implorarono le autorità perché nei casi propri e dei familiari non venissero applicate. Altri ancora abiurarono nell’illusione di riuscire a eluderle o, i pochi che poterono, espatriarono.
L’unione e le singole comunità, invece, come illustra l’autore, “senza aspettare troppi chiarimenti” si misero subito al lavoro. L’UCII (Unione Comunità Israelitiche Italiane) prese “contatto col Ministero dell’educazione nazionale per sostenere e garantire l’applicazione di questi ‘accordi locali’ [stipulati con i vari provveditorati agli studi] e con questo stesso scopo istituisce, nel settembre 1938, un Comitato per i problemi scolastici che cercherà, con suggerimenti e direttive, di coordinare l’opera svolta alla periferia”.
Le comunità locali, dal canto loro, in alcuni casi grazie all’iniziativa dei genitori (come a Trieste), dei professori cacciati (come a Firenze) o di alcuni dirigenti (nella maggior parte delle altre città), cercarono spazi e risorse per evitare che i propri bambini e ragazzi non perdessero la possibilità di studiare. Le situazioni e le problematiche, naturalmente, variavano da comunità a comunità, ma nel complesso molti degli studenti ebrei poterono usufruire, paradossalmente, di un servizio scolastico di gran lunga migliore (sia per la qualità dei docenti, spesso anche universitari, sia, in alcuni casi, per l’apertura mentale degli insegnanti e l’atmosfera più informale) rispetto ai loro coetanei “ariani”.
Dopo una breve panoramica sugli aspetti generali, Fishman si addentra nei meandri di ogni realtà locale, dal Piemonte al Friuli e giù giù fino alla Calabria, riportando i documenti e le testimonianze per illustrare nei minimi dettagli le difficoltà, le reazioni e i risultati ottenuti, dagli asili, fino all’università, da quel famigerato settembre 1938 all’inizio dell’occupazione nazista, nel 1943, e di ciò che avvenne successivamente.
Un rigoroso lavoro scientifico, prezioso per conoscere un pezzo importante della storia del nostro Paese che, sebbene sia concentrato sul sistema scolastico, mette in luce anche molti aspetti delle istituzioni locali e nazionali, nonché alcune delle diverse visioni sociali e culturali delle comunità ebraiche in quel periodo storico. Una lettura altresì piacevolmente scorrevole, nonostante sia particolarmente (e doverosamente) minuzioso.
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