Uno dei libri biblici più poetici, preso ad esempio per i suoi saggi insegnamenti in tutte le epoche e in molte culture monoteiste, è Qoelet, l’Ecclesiaste. Breve, ma intenso “non è un romanzo né un trattato di teologia. È più simile a un diario spirituale ed etico. I suoi diversi capitoli registrano e narrano pensieri, emozioni ed esperienze di un viaggiatore sotto il sole”.
Così viene descritto da Luigino Bruni, ordinario di Economia politica alla Lumsa, il quale, dopo essersi dedicato alla rilettura del libro di Giobbe in “La sventura di un uomo giusto” (già recensito per questo sito), ha pubblicato pochi mesi fa “Una casa senza idoli”, sempre con le Edizioni Dehoniane di Bologna.
In questo secondo volume riprende molti dei concetti già espressi, parlando ampiamente e ripetendo la sua disapprovazione, per esempio, dell’idea di “religione retributiva”, filosofia secondo la quale le buone azioni vengono ricompensate con “beni, salute, figli e provvidenza”, mentre la povertà è riservata ai malvagi come punizione per colpe commesse da loro o dai loro ascendenti.
Anche in Qoelet, così come nel libro di Giobbe, dunque, Bruni vede la condanna della logica economica di un Dio “di tipo mercantile”, una logica presente in molte culture, a partire dalle antiche civiltà mesopotamiche (espressa soprattutto attraverso il culto dei sacrifici e delle offerte di beni) per finire al moderno consumismo che idolatra gli oggetti, trovando in essi il principale, se non unico, piacere. Tutto questo è vanità, come dice appunto Qoelet.
La felicità, quella vera, sempre secondo l’interpretazione di Bruni, è invece da ricercare nel proprio lavoro che ci tiene impegnati e ci dà i frutti di cui godiamo; nella solidarietà, nella condivisione e attenzione verso gli altri; nel porsi domande senza pretendere di trovare le relative risposte. L’opera divina rimane quindi nel mistero perché ciò che ci appare può rientrare in una visione più ampia che non siamo in grado di afferrare.
Da qui deriva, probabilmente, la considerazione del professore, secondo cui Qoelet (attribuito al Re Salomone) ritiene che sia “molte volte più saggia la custodia di uno spazio vuoto che un tempio troppo pieno di cose” e il suo invito a svuotare i “luoghi di Dio”, per evitare che Dio stesso finisca per svuotarsi.
Il pensiero corre subito, allora, alle chiese spesso così piene di statue e dipinti che fanno sembrare l’esortazione di Bruni, fedele e praticante cattolico, un auspicio utopico controcorrente e forse anche rivoluzionario. Altrettanto interessante è la sua critica alle facili certezze e all’”opulenza di risposte false” che costituiscono effimere consolazioni a “domande difficili e tremende”: spesso si preferisce accontentarsi anziché rimanere con i propri punti interrogativi e limitarsi ad osservare la vita e la natura, a riflettere sulla morte, a sviluppare “una buona cultura della vecchiaia” senza la quale “non si può avere un buon rapporto con la vita, con la nascita, con i bambini”.
Da qui ci si dimentica non solo della resilienza, ma anche della gratitudine, abbandonandosi agli sprechi e non considerando un dono tutto ciò che si ha, comprese le cose che oggi ci appaiono più semplici, povere o scontate.
L’impegno, dunque, dovrebbe rivolgersi sia al “reimparare a morire e invecchiare” sia, soprattutto, ad essere riconoscenti. Di quest’ultima azione Bruni ci dà il buon esempio nella sua conclusione.
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