La Shoà è stata una tragedia immensa che ha coinvolto milioni di persone. Oggigiorno conosciamo la storia, o meglio le storie, di alcuni sopravvissuti o di alcuni dei sommersi che hanno lasciato la loro testimonianza scritta o la cui memoria è stata tramandata attraverso le parole di chi li ha conosciuti. Poi c’è il lavoro degli studiosi che ci forniscono dati e ci rendono noti fatti e documenti.
Quel di cui però sappiamo poco è il vissuto dei bambini che hanno attraversato rocambolescamente quel periodo, che sono rimasti orfani e che a volte in pochi secondi hanno dovuto prendere decisioni che hanno determinato la loro esistenza successiva.
Una di questi bambini è Yehudith Klein, nata a Venezia nel 1938 da genitori tedeschi; da qui si trasferisce quasi subito a Milano con la mamma e la nonna con le quali cresce abbastanza serenamente fino agli inizi del 1944. Nel gennaio di quell’anno le truppe naziste le rapiscono per deportarle ad Auschwitz, ma la piccola viene salvata da una vicina di casa cristiana.
Da lì, inizia il flash back di Yehudith, ormai adulta, che, nel libro “La bambina dietro gli occhi” pubblicato da Panozzo Editore, prende per mano se stessa, riaccompagnando quella bimba come se fosse qualcun’altra, una figlia o una nipote, attraverso il periodo più brutto e difficile della sua vita.
Durante la retata gli aguzzini chiedono a Yehudith di cinque anni e mezzo se preferisce seguire la mamma (quella vera, anche se i nazisti non lo sanno e che sta per essere deportata, sebbene nessuna delle vittime può ancora immaginare che fine farà) o rimanere con la vicina di casa. La bimba sceglie istintivamente la seconda e per questo a lungo si porterà dietro enormi sensi di colpa che solo la crescita e la conoscenza della Storia riusciranno ad affievolire.
Per Yehudith, che immediatamente dopo viene rinominata Giuditta e le viene inculcato e imposto il silenzio sulla sua vera identità, è la prima scelta inconsapevole, ma difficilissima, che implicherà conseguenze esistenziali. La vicina, impossibilitata a tenerla, la porta in un convento di educande, in cui regna un regime freddo ed estremamente severo, così diverso dal calore e dall’affetto di cui è circondata nella sua prima infanzia: non le mancano solo gli abbracci e le attenzioni, ma anche la libertà di muoversi, di parlare, perfino di piangere.
Per quanto sia socievole, forte e intelligente, Giuditta ha grandi difficoltà nel riconoscersi in quell’ambiente, così quando di nuovo, dopo un anno e mezzo, altri adulti e in un contesto opposto la metteranno di fronte ad un bivio, lei ancora una volta non avrà dubbi: lascerà le bambine con le quali aveva stretto profonde amicizie e le suore sì severe e che premevano perché “abbracciasse” la religione cattolica, ma che l’avevano accolta e protetta, per seguire due estranei che l’aiuteranno a ritornare alla sua vera identità e le daranno la speranza, che per lei in seguito purtroppo si rivelerà vana, di ritrovare la sua mamma e la sua nonna.
Giuditta, che torna ad essere Yehudith, è una dei bambini passati per Piazzatorre e Selvino (provincia di Bergamo) dove, nella ex colonia di Sciesopoli, tra il 1945 e il 1948 vennero riuniti circa ottocento bambini ebrei sopravvissuti alla Shoah, in gran parte rimasti orfani e portati successivamente in Israele.
Per Yehudith non è la fine delle difficoltà, né tantomeno dei sensi di colpa: nonostante viva ora in un regime più liberale e giocoso, deve relazionarsi con altri bambini, si trova di fronte a lingue che non aveva mai sentito (oltre al tedesco, il polacco, l’yiddish, l’ungherese e così via) e ad una nuova da imparare (l’ebraico), continua a lacerarsi per la scomparsa della mamma e per il vuoto che le ha lasciato, deve prendere almeno altre due o tre decisioni molto più grandi di lei che determineranno il suo percorso di vita.
Ora Yehudith è una persona adulta, moglie, mamma e nonna che è stata sì privata della sua famiglia più ristretta, ma che è riuscita a ritrovare alcuni parenti più lontani che l’hanno aiutata, sebbene da lontano, a conoscere le sue origini e quelle dei suoi genitori.
“Una vita lieve e senza sensi di colpa sarà la mia vendetta ha scritto Yehudith in una delle lettere contenute nel libro. Voler bene al mondo, con curiosità e umorismo è la grande rivincita di Yehudith sul nazismo”. Fa notare Matthias Durchfeld nell’introduzione.
“La bambina mi chiama… ‘Cosa vuoi da me, piccola? Vuoi tornare indietro per cambiare la tua scelta? Ma conosci già l’esito. Forse vuoi tornare indietro per cercare la tua mamma? Ma lei e tutti i testimoni se ne sono andati (…) La tragedia sta per accadere, non c’è modo di sfuggirle”. Scrive all’inizio l’autrice-testimone che termina in fondo: “Il viaggio è finito bambina, è ora di salutarci. (…) Ricordati, piccola, che non sei più sola. Quando ti guardo da qui, mi sembri tanto lontana. Un abisso ci separa. Ma la mia figlioletta è il ponte che mi collega a te, bambina”.
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