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18/11/24 ore

Racconti della città. Poesie 1945-’50, di Gustavo Tomsich


  • Giovanni Lauricella

Racconti della città. Poesie 1945-’50, di Gustavo Tomsich,è un libro di recente ripubblicazione della Edizioni Croce la cui prefazione di Dante Maffia, importante  poeta del ‘900 fu curata da Sarina Aletta.

 

Sloveno di Zagabria dove è nato nel lontano 1924, anche se è stato subito trasferito in un orfanotrofio di Viggiù: dopo aver vissuto a Milano e gli innumerevoli viaggi in giro per i più sperduti angoli del mondo, vivrà i suoi ultimi anni a Viterbo dove morirà nel 2015.

 

Eclettico, non smetterà mai di scrivere e pubblicare poesie, come non cesserà di essere importante scrittore, giornalista di famose e scandalose inchieste, poi anche fotografo, botanico e persino vulcanologo.

 

Le date di composizione delle poesie parlano da sé, 1945-1950 sono gli anni tragici della ricostruzione, i cui soggetti, che Gustavo Tomsich mette in scena, risalgono a una città meschina, di quelle surreali che vedevamo nel cinema realista in bianco e nero. Poesie di altri tempi che sorprendono per l’intelligente lirismo, che offrono visioni intime di persone cui difficilmente si presta attenzione, e anche di oggetti e luoghi che incredibilmente, come per incanto, prendono anima poetica.

 

Mi ha sorpreso costatare che questo mondo del dopoguerra di un’Italia distrutta e a pezzi la ritroviamo uguale adesso, anche se a “colori”, e non mi riferisco in questo caso alla pellicola ma alla massiccia immigrazione che malamente stentiamo a contenere e in generale al degrado che ci assedia.

 

Non è di questo parallelo che vi voglio parlare ma dello straordinario intimismo che Gustavo Tomsich riesce a esprimere: lo si direbbe un Segantini (il pittore dell’800 specializzato in paesaggi alpestri), che invece di descrivere pascoli e montanari andasse a “pennellare” la povera gente, le “bestie urbane” stagliate in un habitat incredibile offerto dalla città, con un distacco partecipe di chi ne ritrae a distanza la scena.

 

Qui, nei racconti di città, lo scenario è la crudeltà quotidiana, resa peraltro quasi piacevole da una particolare capacità descrittiva del poeta, che ha un’amarezza tipica di chi ha sofferto tanto e quel senso di percezione sociale che rivendica libertà e uguaglianza di chi ha fatto la resistenza.

 

Una poesia di alto valore artistico al punto che persino Salvatore Quasimodo, poco incline a elogiare altri poeti, soleva recitare alcuni versi in pubblico del nostro Tomsich.

 

Particolarmente influente è la biografia dell’autore che è stato attento cultore dei bei versi quanto distaccato dal clamore del successo.

 

Lo contraddistingue l’aneddoto di quando, nei primi anni ’50, perse il premio San Babila, andato poi a Andrea Zanzotto, perché ormai imbarcato su una nave mercantile come telegrafista, perdendo così il prestigio che avrebbe avuto da una giuria costituita dai massimi poeti italiani.

 

Anche se antitetico al meccanismo di celebrità poetica, Tomsich fu un personaggio milanese di spicco che frequentava i ritrovi di gran richiamo culturale, il Bar Brera e poi il Giamaica, aveva per amici Roberto Crippa, Gianni Dova, che illustrerà “Uomini, Prore e Miraggi”, Cesare Peverelli, Salvatore Quasimodo, Aligi Sassu, Antonio Pinghelli, Alfredo Chighine, Antonio DonatCattin, Renato Birolli, Alfredo Balducci, Raul Capra, Bernardo Leporini, Ibrahim Kodra, che illustra  il suo libro di poesie edito nel  1950, Vittorio Olcese, Beniamino Del Fabbro e Franco Vegliani.

 

Anche se da poco usciti da sotto le macerie era una bella epoca davvero, ancorché in bianco e nero…

 

 


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