Il calcio può essere considerato un fenomeno religioso? Se sì, perché? Cos’hanno i due in comune? La popolarità di questo sport è un bene o un male? In “Football” pubblicato da EDB Lampi, Marc Augé risponde a queste e ad altre analoghe domande. Un libro minuscolo, ma concentratissimo e soprattutto molto attuale, uscito proprio alla vigilia dei campionati europei 2016.
Già alla metà dell’800 esistevano in Inghilterra alcuni club formati da ragazzi delle classi medie che si riunivano per continuare a praticare gli sport che avevano amato a scuola. A questi, e a quelli già esistenti all’interno delle chiese dove giovani sacerdoti che ritenevano lo sport un’ottima attività fisica e un’altrettanto salutare occasione di aggregazione sociale, si aggiunsero i gruppi che costituirono il nucleo centrale della capillare diffusione dello sport in qualità di spettacolo anche tra le classi meno abbienti.
La tifoseria moderna, intesa come fenomeno di massa, infatti, nacque, secondo l’autore, alla fine del diciannovesimo secolo quando gli operai delle fabbriche al termine del loro turno si radunavano nei pub e nelle birrerie inglesi per distrarsi dalle fatiche delle lunghe ore di lavoro, mangiando e bevendo tra amici, e giocando poi nel campo attiguo al locale messo a disposizione dagli stessi gestori.
Vennero così a costituirsi i primi club “laici” che coinvolgevano le classi meno abbienti, dai quali vennero attinti molti giocatori. Tra di loro alcuni arrivarono fino alla nazionale e, nel 1907 venne creato il primo sindacato dei giocatori professionisti. Lo sport, quindi, si diffuse, coinvolgendo anche chi non giocava direttamente, ma assisteva alle partite e tifava per i propri (ex) colleghi..
Secondo Tony Mason nella sua monumentale opera "Association football and English society, 1863-1915", citata da Augé, gli operai cominciarono a identificarsi con il proprio club, rafforzando una certa coscienza di classe.
Dall'Inghilterra il fenomeno si diffuse in Francia, dove il calcio associativo era un passatempo divertente per i borghesi e una speranza per i protagonisti che vi vedevano un portatore di benefici morali.
Oggigiorno migliaia, se non milioni di persone si riuniscono periodicamente per assistere alle partite, cantano e gridano gli stessi slogan come se fossero delle nuove musiche liturgiche, vestono con gli stessi colori e ripongono le loro speranze “in ventitré officianti e qualche comparsa”.
Un rituale diffusissimo (in Francia, nota l’autore, ma forse, noi potremmo dire, ancora di più in Italia) i cui luoghi sacri sono i campi di calcio che rappresentano le nuove cattedrali e la tv considerata una sorta di altare domestico davanti al quale “milioni di praticanti a casa, [sono] talmente a conoscenza dei dettagli della liturgia che, apparentemente senza scambiarsi una parola, si alzano, gridano, strepitano o si rimettono a sedere allo stesso ritmo della folla riunita allo stadi”.
Un fenomeno che può essere catartico o stimolante per molti, ma pericoloso per altri: se l’identificazione con la propria squadra è totalizzante rischia di diventare il famoso “oppio dei popoli” di marxiana memoria, oppio che può portare ad azioni violente verso i propri avversari.
Il saggio è stato scritto negli anni ’80 e pubblicato sulla rivista “Le débat”, ma è, come si può facilmente immaginare, di stretta attualità, e le sue tesi sono condivise anche da leader di altre religioni.
Scrive, infatti, il famoso e carismatico rabbino d’Inghilterra, Jonathan Sacks, anch’egli tifoso: “Il calcio è molto più di un semplice gioco. Il calcio, per molti versi, è come la religione. Ha il suo imprescindibile aspetto di ritualità perché essere tifosi significa fondare la nostra identità su qualcosa più grande di noi. Ma è anche un intenso momento di fede, perché si tratta di sostenere la tua squadra anche quando le convinzioni più profonde che puoi aver maturato sono messe a dura prova dalle circostanze contingenti. Però quando arriva il goal della vittoria, finalmente, ci si stringe in un abbraccio collettivo per raggiungere uno stato di trascendenza, ciò che Hobbes chiamò ‘una gloria improvvisa’”. Cosa ci potrebbe essere più “oppio” di questo?
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