Voci e storie da cogliere sui sentieri dell'umano. C'è un senso da scoprire anche nella 'Posa dell'ultima pietra' della Torre di Babele. Quella costruzione raggiunge la sommità, ma non i cieli: "La strepitosa fabbrica, la più folle edilizia, ha fatto fiasco. I cieli non sono alla portata. Però che bell'effetto secondario: l'umanità dimentica di guerra, a radunare pietre invece di scagliarle".
Sono i versi di Erri De Luca nel suo nuovo libro, ‘Bizzarrie della Provvidenza’, da oggi in libreria, edito da Einaudi. Un viaggio nel cuore dei ‘Nebiim’, i profeti. Quegli uomini saggi e visionari, metà santi e metà eretici, che camminano tra altari e sorgenti, seguendo il sole, “compagno anarchico del mondo”.
“Nella storia sacra - spiega De Luca - la divinità manda allo sbaraglio i suoi portavoce, li scaraventa a palla persa in mezzo a nemici e forze soverchianti. Vedi per esempio la famosa frase ‘Una voce chiama: nel deserto aprite una pista per Iod/Dio’. Non in un bel centro abitato, ma negli spazi desolati e ostili va inaugurata la novità del monoteismo. Nella storia sacra ci sono continui esempi di estremismo della volontà che io chiamo affettuosamente da non credente le bizzarrie della provvidenza”.
In effetti la bizzarria si scosta dalla consuetudine. L'imbizzarrito, rimarca lo scrittore napoletano che inizia le sue giornate masticando sapienza ebraica, “è uno sconosciuto capitato per sbaglio a una festa di nozze. Così furono i profeti della scrittura sacra”.
In queste pagine De Luca parla di vocazioni. Racconta una serie di personaggi biblici, da Noè fino a Gesù, che hanno ricevuto chiamate a cui non hanno potuto non rispondere, a costo di passare per strambi o mezzi pazzi. Sono storie senza tempo, paradigmatiche, eppure sembrano scritte per occasioni odierne. Perché la storia sacra è “antologia di abbrustoliti dall' ascolto di una voce in fiamme, singoli scervellati a contrappeso di masse strafottenti”.
Voci nel deserto, che si fanno strada tra sabbia e cuori induriti. Quando si cerca verità, le sabbie della Giudea non sono diverse dai vicoli di Napoli, gonfi di vita e di panni appesi ai balconi. In maniera simmetrica, negli ‘Improvvisi’ della seconda parte del volume, che nascono proprio da occasioni sparse (gli sbarchi a Lampedusa, la visita in un carcere, ma anche ‘questioni private’), i versi hanno una voce che risuona oltre il loro spunto genetico quotidiano. E’ dentro nelle cose, perché “gli imbizzarriti di queste pagine sono esploratori”.
Così nei versi di ‘Un albero soltanto’, l’autore sottolinea la fatica di cogliere i segni dei tempi: “Bene e male e la radice uguale. Stesso tronco, fogliame, linfa, frutto. Se non l’assaggi non lo puoi sapere”. Lo sforzo di pensare e costruire una storia è invece nella ‘cifra’ del carpentiere, l’uomo previdente, perché “fa la catramatura prima dall'interno. Se inverte, è asfissiato nel legno sigillato dall' esterno”. Ma anche Babele non è la fine. L’inferno, che è sempre mancanza di relazione, ha un’altra porta: “La divinità sparge in una sola volta i dialetti, le lingue, gli idiomi, le parlate. Non è castigo, è semina”.
Così “la specie umana scioglie l'alveare e sciama sopra i volti della terra. Grammatiche, alfabeti, dizionari portano ai quattro venti. La laboriosa Valle di Scin'ar si smembra nel frastuono di Babele: l'umanità si scuce, va a attecchire ovunque”. Perché dove c’è un volto, ci sono parole a raccontare storie di uomini perduti o ritrovati, sempre in gioco con il destino. “Tra solitari ci si intende al volo”, scrive altrove De Luca.
Ma la speranza si affaccia sempre oltre i muri tirati a calce. Lì, dove l’era resiste al caldo e alla neve, capisci che “hanno ragione le ali” di chi non si ferma a ciò che scorge all’orizzonte. Davide, il ragazzo, infila il sasso nella frombola e abbatte il gigante che crolla a braccia spalancate e chiasso di ferraglia. Serve coraggio e fortuna per imbracciare i giorni. “Al miracolo serve la mite faccia tosta di chiedere, di chiedere, di chiedere”.
Nel petto dei profeti danza sempre un fuoco. A volte, racconta il bisogno di amare, anche solo per ‘salvare’ la propria umanità e darsi ragioni di lotta. Nei versi dedicati a Sansone, lo scrittore invita a scrostare interpretazioni per scorgere un vissuto: “Il suo nome è Shimshòn, da ‘shèmesh’, sole, la più potente forza di natura. Tradotto con Sansone perde contatto con la suprema delle calorie”.
Amò Delilà una donna Filistea. Ma, mette in guardia De Luca, “amare è un verbo scatenato. Non risparmia niente di se stessi. Chi ama è stato pronto per una volta almeno a smettere di vivere per stare con quel verbo, altrimenti non lo conosce né lo sa annunciare”. Amare, verbo all'infinito, è incandescente, “chi lo afferma deve darne prova fino all'accecamento”.
Porta con sé nel viaggio fuochi di brace o lampare sulla barca, per rischiarare pezzi di notte nel bosco o traversate in mare aperto. “Delilà lo ha tradito? No”, è la risposta dell’autore. Eppure ha consegnato l'amante ai suoi nemici. Lo accecano, lo aggiogano alla macina, lo esibiscono in catene all'assemblea. “Delilà lo ha tradito? No – ribadisce lo scrittore - si capisce alla fine della storia. Sansone non è l'ingenuo atleta che straparla con Dalila e si fa depilare: quei due si sono amati più di Romeo e Giulietta”.
Va assaporata quella storia con la grazia, umana, dell’ascolto. La stessa attenzione che si deve ai marinai che gettano i dadi, “chiedendo alla sorte il nome di un colpevole, causa della tempesta”. In ‘Intervento a un’assemblea sul carcere’, profeta è chi invita a vegliare: “Da noi stasera il tempo trottola per strada, sbanda in un vagone, si rigira in un letto a due piazze, aspetta una telefonata. Stasera da noi il tempo fa le sue faccende”.
Si cerca verità, con gli occhi di un cane invecchiato. Una piccola luce può squarciare il buio: “A vedere lo squaglio aggrumato e lo stoppino gobbo nessuno s'immagina oggi la forza incendiaria delle candele”. Il tempo “non è cenere di lava che ricopre Pompei e la custodisce, il tempo è un guastatore”.
Il tempo è sempre scelta di possibili. Come nei versi di un’altra poesia, intitolata ‘Allora restauro leggende’: “Salgo alle montagne a starmene lontano, raggiungere un confine e ritornare, allenamento da contrabbandiere”. Il grande insegnamento dei ‘folli’ profeti è cercare ancora un senso alle cose: “La terra è vento e non si fa arrestare. Ha l'anima di polvere e la tosse di cenere, scatarro di vulcani. La terra è oggi, ma chissà domani. Sta dove grida ancora il sangue sparso dal fratello di Abele, il primo tempo perso. La terra siamo noi fatti di argilla e di un soffio venuto da lontano a riempire e poi scappare via”.
Il “rimorso regolare dei profeti” è uno solo: “dire senza impedire”. Un viaggio senza fine, quello di cercare sempre. L’indicazione del viaggio è nella poesia ‘Miniera’, dove uomini scavano nelle viscere di montagne per trovare pane. “Dacci oggi il ritorno quotidiano, risparmiaci dai crolli. E così siamo”.
Tratti di strada impaginano attese e tramonti. Così in ‘La linea’: “Ecco la foto della mia mano, dove ogni zingara trova la linea del tuo nome, una via maestra che punta diritto al battito del polso e lo governa”. Forse l’amore è come il “latitante” di altri versi, nato come uno zingaro su un carro. “Dicono che ritorna –scrive De Luca - che deve tornare. Intanto altre comete incipriate battono il marciapiede delle stelle”.
Gerardo Picardo
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