Prestigiosa testimone novantenne della Shoah, Liliana Segre ha accettato un ennesimo riconoscimento: essere Donna dell’Anno del Premio Pavoncella 2020, al quale ha inviato un significativo messaggio, letto durante il suddetto evento culturale dedicato alla creatività femminile, svoltosi con successo il 19 settembre a Sabaudia, presso l’Auditorium del Parco Nazionale del Circeo.
Eccone la significativa motivazione: “Ha conosciuto, giovanissima, gli orrori del lager e, una volta riacquistata la libertà e con essa un faticoso ritorno alla vita, Liliana Segre, ha scelto per 45 anni il silenzio, senza per questo che quel viaggio tragico nella banalità del male, l’abbandonasse per un solo istante. Oggi, madre e nonna, Liliana Segre, ha deciso di rompere quel silenzio non tanto e non solo per ricordare la tragedia della Shoah a chi finge di ignorarla, quanto per fare del Suo impegno contro ogni forma di violenza, razzismo e discriminazione un messaggio di pace che faccia presa sulle giovani generazioni…”.
E in effetti da un trentennio gira come testimone nelle scuole, sempre protetta dalla scorta di carabinieri a lei assegnata, vittima di messaggi d’odio e minacce che ci dovrebbero far riflettere. La sua tragica storia si può leggere sul sito “ Enciclopedia delle donne- Biografie”. Liliana a 13 anni, benché orfana di madre, era una ragazzina felice e molto amata dal padre dai nonni. Era una “piccola italiana”, come tutte le bambine cresciute sotto il fascismo. Poi nel 1938 arrivarono le leggi razziali con le conseguenziali umiliazioni e l’espulsione dalla scuola. “Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; ella racconta.
Poi seguirono guerra, bombardamenti, caccia all’ebreo e il tentativo di fuggire in Svizzera, bloccato dall’arresto al confinel’8 dicembre 1943. Trasferiti in varie prigioni, furono infine condotti il 30 gennaio 1944 a Milano dove più di 600 persone, tra cui 40 bambini, inclusa Liliana vennero caricati su camion e portati alla Stazione Centrale. ”Il passaggio fu velocissimo: SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame…Nel vagone buio c’era solo un po’ di paglia per terra, e un secchio per i nostri bisogni”, dice Liliana.
Arrivò ad Auschwitz il 6 febbraio 1944 insieme a 605 ebrei, dei quali 500 uccisi subito nelle camere al gas. Mentre gli uomini venivano divisi dalle donne, Liliana fu separata dal padre che non rivide mai più. Selezionata e tatuata con il numero 75190, a soli 13 anni cercò di sopravvivere in un contesto di violenza e morte, adottando una strategia di estraniazione: ignorare quel mondo malvagio, magari scegliendo una stella in cielo da ritrovare la notte, non affezionarsi a nessuno per non subire il dolore di altre perdite.
Eppure adulta e finalmente libera, ormai moglie e madre di tre figli, i tragici momenti del passato sarebbero tornati a visitarla e farla sentire in colpa per quel mortale distacco verso gli altri, dettato dalla sopravvivenza come se il male l’avesse macchiata e costretta ad un distacco non accettato dalla sua anima. “Per capire Auschwitz ci vorrebbero molte vite”- dice spesso - poiché quei dolorosi ricordi richiedono parole capaci di tradurre in immagini le violenze subite dalle vittime. Il 27 gennaio 1945, insieme ad 80mila ebrei fu costretta alla cosiddetta Marcia della Morte verso la Germania lungo le strade innevate della Polonia tra i morti per fame e gelo, spesso finiti dalle SS con un colpo di pistola. Venne liberata a Malchow il 30 aprile 1945. Tornata a Milano, tra i parenti sopravvissuti trovò solo i nonni materni e uno zio.
Una tragedia immane, una furia bestiale e oscura che distrusse il suo mondo di bambina all’improvviso, cancellando diritti umani in un’Europa ritenuta colta e civile… eppure Liliana Segre è riuscita ancora a credere che “essere uomini” debba avere un senso e pertanto affronta ancor oggi il dolore e la fatica della testimonianza in una strenua lotta che ora si estende a qualsiasi forma di discriminazione e razzismo.
Auschwitz non è solo un capitolo dei libri di storia, è il numero tatuato sul suo braccio. “Prima del mio nome viene il mio numero,75190 - Liliana dice - Non è tatuato sulla pelle, è impresso dentro di noi sopravvissuti, vergogna per chi lo ha fatto, onore per chi lo porta non avendo mai fatto niente per prevaricare; essendo vivo per caso, come lo sono io”.
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