È la mia traduzione, di queste ore, di cento versi del Libro I delle Metamorfosidi Ovidio, vv. 452-556. Un poema terribile che guarda con occhi mai stanchi l’enigma delle cose e che, alla fine, nel Libro XV affida a Pitagora di rappresentare il molto affanno in cui perdiamo il nostro volto. Ovidio terminò di scriverlo nell’8 d.C. l’anno in cui la sua vita si spezza, si trasforma. Condannato da Augusto all’esilio di Tomi, sul Mar Nero, l’anno successivo lasciò Roma, e morì lontano da se stesso.
POESÌ di Rino Mele
Dafne e Apollo (Ovidio, Le metamorfosi, Libro I vv.452-556)
Non aveva Febo amato nessuna prima di Dafne, figlia del fiume Peneo, e non fu il caso a generare quest'amore ma la crudele vendetta di Cupido.
Superbo per aver da poco vinto l'immane serpente, il dio degli oracoli nel vedere il giovine divino Cupido forzare le corna dell'arco per tendervi la corda, gli aveva sorriso: "Ma che fai, lascivo fanciullo, con queste armi possenti?" e aveva aggiunto: "Sono armi adatte alle spalle di chi sa colpire con certezza le fiere, aprire ferite nei corpi nemici e, come me, ha appena distrutto un serpente spaventoso e gonfio che premeva la sua peste lungo infinite colline". Incrudelendo lo irride: "Tu, con la tua fiaccola, bada a non so che amori, ma non pensare di competere con la mia gloria.
A Febo il figlio di Venere subito risponde: "Trafigga il tuo arco l’intero universo, a trafiggerti sarà il mio e, quanto è la distanza tra gli uomini, gli animali, i viventi e un dio, tanto è l'abisso che ci divide".
Sbatte le ali in fretta, rompe l'aria di vetro, raggiunge
con agile volo
la cima del Parnaso, sceglie l'ombra, dalla faretra colmaestrae
due frecce di opposta virtù, la prima
fugge l'amore,
l'altra insegue il desiderio che crea, questa è d'oro, e la sua punta
manda lampi di luce
mentre quella
che s'oppone all’arsura d’amore
è schiacciata, e la canna è pesante come piombo. Proprio questa
il giovane dio
confisse nella carne della ninfa, figlia di Peneo, mentre con l'altra
entrò nel midollo di Apollo dopo avergli spezzato le ossa.
Fu un attimo, lui già annega nel desiderio,
lei nemmeno il suono della parola "amore" vuole udire
mentre si strugge di piacere per le tenebre
delle selve
e dei corpi inerti degli animali catturati, e sente
di somigliare a Febe-Diana mai sottoposta alle nozze:
come lei, senza legge,un semplice nastro raccoglie i suoi capelli.
(477-489)
Febo appena vista la desidera e già delira
il suo desiderio (ma il dio degli oracoli s'inganna). Come lievi gli steli
delle stoppie ardono quando il grano è mietuto,
come le siepi prendono fuoco
se uno camminando v'accosti o lanci lontano una torcia,
quando il mattino inonda della sua luce, così il dio
s'incendia, brucia il suo petto,
e già gli sembra di vivere quello che è solo desiderio.
(508-526)
Anche mentre fugge spaventata, Dafne lascia stupiti
per la sua bellezza,
sembrava il vento denudarla, i soffi improvvisi risuonavano
sulle vesti che si opponevano e, tremando, l'aria le apre i capelli
e li spande: è più struggente la sua bellezza
nella fuga.
Il giovane dio non si perde in altri inganni di parole e, come lo spinge
il desiderio,
la insegue precipitando i propri passi nei suoi.
Come in un campo vuoto un cane di Gallia vede
all'improvviso una lepre, e questa
cerca scampo e salvezza, quello la preda,
e le zampe volano impazzite, il muso sembra allungarsi nella presa
ed essa ignora se è stata già presa e in quell'incertezza delira,
si sottrae ai morsi, alla bocca che già la prende.
Così il dio e la vergine urtano lo stesso precipizio, lui per desiderio,
lei per paura. Spinto dalla forza d'amore,
lui che insegue è più veloce, le nega qualsiasi pausa, le è sopra,
alle spalle, e il suo fiato le apre i capelli sulla nuca.
Perdute le forze, sbiancò stremata dalla fatica di quella corsa
senza uscite e, come avesse davanti agli occhi le acque del fiume
Peneo grida: "Padre, se voi fiumi, che siete sacri,
avete questo potere, trasforma il mio corpo per il quale - troppo
piacendo - sono diventata preda".
Un torpore assonna subito le sue membra, i teneri seni
sono stretti da una lieve scorza, foglie i suoi capelli, le braccia si stirano
e già sono rami, i piedi tanto veloci ora sognano
in lente radici, il volto s'adombra svanendo nel verde più alto, di lei
rimane la luce.
Anche così, Febo ne è preso, tocca quel tronco e sente
il cuore che batte sotto la tenera novella corteccia,
tirandoli a sé abbraccia i rami, come fossero braccia e quel legno bacia, ma l'albero ancora gli sfugge.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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