di Maurizio Musu
Le nuotatrici (The Swimmers) diretto dalla regista Sally El Hosaini (Babylon fra i suoi film più recenti), presentato in anteprima al festival di Toronto, già acclamato dal pubblico - tra i più visti su Netflix -; è un dramma biografico che racconta la storia di due sorelle siriane costrette a fuggire dalla Siria devastata dalla guerra.
La vicenda delle sorelle siriane si svolge nel 2015, ma ha avuto grande risonanza negli anni successivi, soprattutto quando Yusra, una delle protagoniste, ha scritto con la scrittrice tedesca Josie Le Blond il libro Butterfly: da profuga ad atleta olimpica, pubblicato in Italia da Giunti.
Yusra e Sara Mardini (interpretate da Nathalie e Manal Issa - sorelle di origini franco-libanesi - le quali, a differenze dei loro personaggi: “Non sapevano praticamente nuotare quando hanno accettato il ruolo”, dice la regista El Hosaini);), sono due sorelle siriane che sognano di diventare nuotatrici professioniste.
Yusra nuotatrice di talento, ha rappresentato la Siria ai Campionati del mondo di nuoto in vasca corta del 2012, sogna di vincere l’oro Olimpico. Con lo scoppio della guerra tutto si complica fino alla dura e drammatica decisione di fuggire dalla Siria, nella speranza di trovare sicurezza e una nuova vita oltremare. Destinazione Berlino.
Grande merito al regista che con abilità sposta il grandangolo della vicenda personale delle due ragazze verso il tema più corale dei migranti. La fuga delle due ragazze diventa così un quadro d’insieme in cui osservare da più vicino lo sguardo, le parole, le azioni di chi è costretto a lasciare il proprio Paese.
Dalla Siria a Lesbo via mare su un gommone, la Grecia, la Turchia, dalla Serbia per giungere in Germania, le sorelle Mardini vivono nel giogo della tirannia di scafisti e fiancheggiatori della tratta degli uomini. Tutto ha un prezzo. Per alcuni la vita, morti annegati; per altri il prezzo di un passaporto ed un nullaosta per entrare in un nuovo Paese passa attraverso l’illegalità di un sottobosco fitto di ragnatele e mani da ingrassare con i risparmi di una vita intera.
La paura, come il desiderio, diventa il motore pulsante per non arrendersi, Yusra e Sara ne sono consapevoli e per questo spingono la loro voglia di vivere oltre un gommone ed un filo spinato. Le barriere diventano, loro malgrado, anello di congiunzione per nuovi legami, nuove prospettive di vita – per chi questa vita la riesce a tenere in piedi nonostante tutto -.
Rifugiati e apolidi. Uomini e donne. Neonati e bambini. Ciascuno con il proprio sogno da vivere, ciascuno con quelle ferite difficili da dimenticare ma sanate grazie ad un passaporto e del cibo in un nuovo Paese.
L’accoglienza come tema umano e critico. La regista non lesina quelle sfumature di grigio su un tema controverso come quello dell’accoglienza. Non lesina quel senso critico tipico di chi vuole mostrare le falle di una Politica non sempre all’altezza. Una denuncia garbata, modesta, elegante, con la grande capacità narrativa di non far alzare mai i toni delle parole dei suoi personaggi.
Soli, abbandonati, nullatenenti ed a nulla appartenenti. Sono dei corpi che viaggiano. Sono dei vuoti che nessuno vuole accogliere. I personaggi seguono i sentieri controversi dell’accoglienza di terre che non accolgono, che non sempre liberano le frontiere dalla burocrazia dei documenti che non ci sono più. Persi e dispersi nelle fauci del mare.
Si entra così nel dedalo della tirannia del Potere occulto, quello che ti permette di entrare anche quando nessuno ti vuole. È la mercificazione dolente delle vite.
Yusra e Sara diventano parte di un Racconto che non accetta compromessi. Pagare è il pegno oltre che il prezzo della Libertà e della vita.
Oltre i morti sul mare, oltre quei giubbotti salvagente distesi sulle spiagge di Lesbo. Il denaro permette la possibilità di varcare l’anfratto dell’impossibile.
Il rischio è rimanere esclusi ad oltranza. Non sei più un cittadino, né una persona. I rifugiati diventano così lo scolo di una società escludente che non vuole occuparsi di loro. È il tema controverso di questo inizio secolo.
Il campo immagine si allarga, si passa dal mare alla terra – il miracolo della sopravvivenza – dai volti stravolti di chi ce l’ha fatta ai corpi galleggianti.
Da un lato urla e pianti di gioia. Abbracci e sorrisi sono un racconto privato ed intimo che non hanno bisogno di ulteriori immagini.
Volti stanchi, corpi disidratati dal sole e dalle fatiche, il mare che lentamente lascia campo alla speranza. Tutto questo è raccontato con umanità, senza l’assillo di mettere in mostra un di più, che sarebbe poco utile allo spettatore. Le immagini son ben chiare ed evidenti anche senza.
L’arrivo alla terra ferma è un accalorato racconto dell’umano e della capacità di sopravvivenza.
È la vittoria della vita o l’ennesima sconfitta di quel Sistema Politico-sociale non accogliente.
Dall’altra si intravedono sullo sfondo le immagini dei corpi senza vita galleggiare sul mare. Una distesa inerme che toglie il fiato.
La pellicola scorre inesorabile, come gli eventi. Si arriva ad un nuovo piano sequenza in cui la regista (senza mai aver perso di vista le due ragazze), ci riporta alla vicenda delle due protagoniste.
Inizia il tema del doppio, l’unicità della storia lascia spazio alle due protagoniste di costruire il proprio futuro ben oltre quel senso di complicità che fino a quel momento le aveva viste inseparabili.
Le due sorelle, separandosi, mostrano la capacità di adattarsi alla nuova vita, inseguendo realizzazioni differenti.
Yusra, una volta ottenuto l’asilo in Germania, caparbiamente torna in piscina dove inizia un lungo lavoro di preparazione atletica con l’allenatore Sven Spannekrebs (interpretato da Matthias Schweighöfer) a Berlino.
Verrà selezionata per la prima Squadra Olimpica di rifugiati del CIO per Rio 2016 (insieme ad altri nove atleti, originari di Etiopia, Sud Sudan, Siria e Repubblica Democratica del Congo), dove gareggerà, superando le eliminatorie. Nel 2017, con l’ottenimento della cittadinanza tedesca, Yusra Mardini non sarà più eleggibile per la Squadra dei Rifugiati del CIO, diventerà la più giovane Ambasciatrice di Buona Volontà dell'UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Così all’assemblea delle Nazioni Unite:
“Non c’è da vergognarsi nell’essere un rifugiato se ricordiamo chi siamo. Siamo ancora i medici, gli ingegneri, gli avvocati, gli insegnanti, gli studenti che eravamo quando ci trovavamo nelle nostre case. Siamo ancora madri e padri, fratelli e sorelle. Sono state la guerra e le persecuzioni a costringerci ad abbandonare le nostre case per cercare la pace. Questo vuol dire essere un rifugiato. Ecco chi sono io. Ecco chi siamo tutti noi, quella popolazione senza patria che cresce di giorno in giorno. Sono una rifugiata e sono orgogliosa di battermi per la pace, l’onore e la dignità di tutti coloro che fuggono dalla violenza. Unitevi a me. State dalla nostra parte".
.Dall’altra, Sarah, la quale, accantonata l’dea del nuoto, si immergerà nel mondo delle organizzazioni umanitarie no profit per difendere i diritti umani.
Tre anni fa è stata arrestata, insieme a 22 attivisti dell’organizzazione Emergency Response Center International (Erci), con diversi i capi d’accusa, che vanno dallo spionaggio al falso, all’uso illecito di frequenze radio. Gli accusati rischiano fino a 25 anni di carcere, mentre Human Rights Watch ha invitato l’appello alle autorità greche affinché “smettano di criminalizzare i soccorritori umanitari”.
Un film importante per temi trattati e la grande compostezza con la quale vengono trattati.
Una denuncia che non ammette repliche.
Perché guardarlo?
Perché non c’è retorica. Perché è delicato ed umano. Perché ci pone dinanzi ad una realtà che troppo spesso accantoniamo come non nostra. Perché nell’era del meta verso questo film ci riconduce a terra. Perché il tema non è solo di chi fugge ma anche di chi accoglie.
Perché, le nuotatrici, in fondo non è solo un film (non dobbiamo rabbrividire alla sola vista di un bambino morto in spiaggia e mostrato su tutte le copertine dei quotidiani o nelle prime pagine dei Tg).