di Maurizio Musu
"Tre piani", film diretto da Nanni Moretti, è tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, voce di spicco della letteratura israeliana contemporanea (è di pochi giorni fa l’uscita in Italia del nuovo romanzo, “Le vie dell’Eden”).
Lo scrittore racconta le vicende di un condominio borghese che sorge nei dintorni di Tel Aviv; in ognuno dei tre piani prende vita la storia di ciascuna famiglia. Al contrario di quanto appare da fuori, dentro le case regna un caos interiore che ha sede nelle personalità dei personaggi. Ognuno dei protagonisti racconta la storia in prima persona a un "tu" che di volta in volta cambia. Questo dialogo, come la necessità dell'alterità, sembra richiamare la dinamica - più o meno cosciente - di una seduta psicoanalitica, quasi ad incarnare le tre istanze intrapsichiche freudiane dell’Es, l’Io e Super-Io.
"Tre piani" si inoltra nel cuore delle relazioni umane: dal bisogno di amore al tradimento; dal sospetto alla paura di lasciarsi andare. E dona al lettore personaggi umani e profondi, sempre pronti, nonostante i colpi inferti dalla vita, a rialzarsi per riprendere a lottare.
Una scrittura intima, profonda, in cui il non detto diventa parte integrante di una trama più vicina ad una seduta psicoterapica che ad un romanzo. È il tratto distintivo di Nevo.
Il film di Moretti, girato in un non precisato condominio di un quartiere di Roma, porta sul grande schermo la storia di tre famiglie piccolo borghesi della capitale; a tratti con fedeltà al romanzo di Nevo, a tratti discostandosene in modo evidente.
Roma non è Tel Aviv!
Nel condominio romano al primo piano vivono Lucio (Riccardo Scamarcio), Sara (Elena Lietti), Francesca, figlia di sette anni. Nell'appartamento adiacente ci sono Giovanna (Anna Bonaiuto) e Renato (Paolo Graziosi), che spesso fanno da babysitter alla bambina. Una sera, Renato, a cui è stata affidata Francesca, si assenta con la bambina per molte ore. Quando vengono ritrovati, Lucio teme che a sua figlia sia accaduto qualcosa di terribile, facendone una ossessione nel quotidiano.
Al secondo piano vive Monica (Alba Rohrwacher), alle prese con l’esperienza della maternità. Suo marito Giorgio (Adriano Giannini) ingegnere, trascorre lunghi periodi all’estero per lavoro. Questo crea a Monica una silenziosa battaglia contro la solitudine e la paura di diventare un giorno come sua madre, ricoverata in una clinica specialistica per disturbi mentali.
Al terzo piano vivono Dora (Margherita Buy) suo marito Vittorio (Nanni Moretti), entrambi giudici; con loro il figlio ventenne Andrea (Alessandro Sperduti). Una notte il ragazzo, ubriaco, investe e uccide una donna. Sconvolto, chiede ai genitori di fargli evitare il carcere. Vittorio, con la rettitudine del giudice/genitore fermo nel rispetto della legge, pensa che suo figlio debba essere giudicato e condannato per quello che ha fatto. Non così per Dora. La tensione tra padre e figlio esplode, fino a creare una frattura definitiva tra i due. Vittorio costringerà Dora a una scelta dolorosa: o lui o il figlio. Una scelta dolorosa, in cui a vincere è un figlio che con il carcere potrà costruire una nuova identità, oltre e altro dall’essere figlio.
Il film non convince. Manca di intensità ambienti e personaggi risultano grigi-opachi come l’intera sceneggiatura. A questo si aggiunga una recitazione fredda con dialoghi scarni, monosillabici, rigidi. Tutto il contrario di quanto accade nelle pagine del romanzo.
I personaggi, devitalizzati e quasi avulsi dalle vicende, risultano poco credibili, quasi fossero disarcionati dalla forza delle stesse vicende, o forse da un copione fin troppo manieristico; i contenuti emozionali, tanto cari a Nevo, qui vengono meno, scena dopo scena, quasi fossero un abito scomodo e troppo grande sia per il regista sia per gli stessi personaggi.
In questa lacuna dell’umano, risulta ancor più evidente la distanza fra testo scritto e prosa. I tre piani del romanzo spingono il lettore nella continua sete di sapere e sentirsi parte della storia e delle singole vicende, Moretti, propone, al contrario, una sceneggiatura austera, razionale, “anaffettiva”; una pellicola asciutta, a tratti timida ed eccessivamente debole.
Il personaggio di Scamarcio, uomo impulsivo, appare come un personaggio forzato, eccessivo, macchinoso e poco credibile. Quasi come un esercizio di stile e forma
Lo stesso si può dire di Elena Lietti; una recitazione che punge davvero poco, a tratti inespressiva. Una figura femminile troppo lontana dall’essere affettiva con marito e figlia.
Il personaggio interpretato dalla Rohrwacher, è una donna sola con un figlio appena nato è una lontana parente dell’attrice vista in altre pellicole. Una recitazione ostentata che non esprime il senso di abbandono sentito e vissuto, come per l’insorgere della malattia mentale.
Marito e figlia sicuramente meglio, ma anche qui, lacunose le recitazioni.
Il personaggio interpretato da Moretti, giudice severo è un personaggio che non riesce ad essere mai efficace e credibile nelle sue battute, fredde, austere e mai veramente sentite. Forse il personaggio meno riuscito del film.
Margherita Buy con il suo personaggio prova a staccarsi dal solito copione di donna in crisi, qui si presenta con una recitazione più sentita e vissuta, ma per lunghi tratti il copione non l’aiuta.
Andrea (Alessandro Sperduti), il personaggio più credibile e riuscito, nonostante alcune scene siano fuori sincrono dal personaggio è sicuramente l’elemento più intimo e reattivo della storia.
Forzature finali della sceneggiatura, su tutte il tango per le strade del quartiere sono una allegoria che poco ha a che fare con la struttura della storia confermano quanto il regista abbia forzato nella sua sceneggiatura un testo che forse chiedeva semplicemente più anima, sentimento, fluidità.
Di fatto il film risulta macchinoso, per lunghi tratti lo spettatore si chiede se il regista sia davvero il Nanni Moretti di Caro diario, de La stanza del figlio, Il caimano e di quanto fin qui prodotto con successo. Un po’ come se ci fosse stata, da parte del regista italiano, una soggezione nei confronti dell’autore del romanzo, al punto da sentirne il peso. È una personale lettura e come tale dovrà essere letta ma, rimane una più generale delusione, soprattutto dei morettiani della prima ora, per aver tradotto con una ossessiva cura maniacale dettagli oggettivi di un romanzo invece intimo, profondo, umano come è tre piani di Nevo.
Perché, come i lettori di Nevo sanno, il piano dell’umano contraddistingue da sempre i libri dello scrittore israeliano, così come con grande è l’attenzione al sottointeso, a quel non detto che costruisce trame e fili che il film non solo disperde ma quasi non ne tiene conto.