di Vincenzo Basile
"Il figlio di Saul non è un bel film! Semplicemente perché non vuole esserlo, anzi rifugge da tutti gli estetismi, da qualsiasi ricerca di stile, qualsiasi estetismo e spettacolarita'…" inizia così la conferenza stampa a Cannes del giovane regista ungherese, Laszlo Nemes, che spiega:
"Questa insieme a molte altre è stata una delle scelte che dall'inizio mi sono imposto e per la quale ho lottato affinché fosse accettata dalla troupe. Abbiamo sempre visto la creazione del film come un lavoro di squadra e deciso sin dall'inizio i criteri a cui rifarci e a questi ci siamo attenuti fino alla fine.
Lo scopo principale era mostrare l'impresentabile. Gli attori, hanno lavorato su una recitazione anemotiva, proprio per mostrare l’assuefazione dei personaggi all' assenza di vissuto di chi, vivendo costantemente nell'orrore, non riesce a provare piu' niente di umano.
Ho avuto dei familiari uccisi ad Auschwitz. ‘Il male si era compiuto’ si diceva abitualmente nella mia famiglia. Da bambino non capivo bene poi, non appena ho potuto farlo, ho deciso di ristabilire un legame con questa storia. Come spettatore mi sono sempre sentito frustrato dai film sui Campi. Non volevo fare di nessuno un eroe ma raccontare una storia che potesse essere la piu' semplice e arcaica possibile.
Ho scelto lo sguardo di Saul Auslander, un ebreo ungherese che credendo di riconoscere suo figlio nel cadavere di un ragazzo, si mette alla ricerca di un rabbino che possa dargli una degna sepoltura.
Il film si concentra pertanto su un unico punto di vista e su un unica azione che nell'inferno del campo sembra derisoria, ma che tuttavia permette di incrociare altri sguardi e altre azioni".
Ci sono delle cose che avete voluto evitare?
"Non volevo mostrare platealmente ne soprattutto ricostruire l'orrore dell'entrata nelle camere a gas e la morte delle persone.
Il film si ferma prima e riprende dopo nel momento in cui si portano via i morti, si lavano le stanze e si cancellano le tracce.
Anche l'operatore capo (Matyas Erdelye) e lo scenografo (Laszlo Rajk), hanno seguito le mie direttive: il film non puo' e non doveva essere bello , seduttivo, non volevamo fare un orror movie!
Tutto il film è pervaso dall’intenzione di affidarci all’immaginazione degli spettatori anziché, tradizionalmente, alla forza delle immagini".
Un'operazione assolutamente non facile ma un film da festival molto più di altri in concorso. Apprezzato oltre che in patria, dove il terreno non gli è certo favorevole, anche nel resto d’Europa, Guardian in testa.
Sette minuti di applausi a fine proiezione e Matteo Garrone, primo dei tre italiani in concorso, entusiasta per l’accoglienza del suo film.
"La scommessa era temeraria, perchè Il racconto dei racconti, basato sul poema secentesco di Giambattista Basile (Lu cuntu de li cunti), è un film monumentale e insieme essenziale, un esempio di fantasy rurale mai visto prima, in cui le fiabe non hanno lieto fine e in cui ognuno paga, fino in fondo, il prezzo delle proprie smodate ambizioni. Nelle novelle di Basile ho ritrovato ossessioni che da sempre fanno parte del mio cinema, soprattutto l’idea del desiderio che diventa mania e genera conflitti».
Finalmente si assiste a degli effetti speciali misuratissimi mirati a uno scopo pienamente raggiunto grazie anche a una Salma Hayek generosa e perfetta nel ruolo della determinatissima Regina di Selvascura. E già qui si mormora che il prevedibile successo del film potrebbe indurre i produttori, Garrone è tra questi, a cercare tra i rimanenti 47 Cunti, materiale per una serie fantasy di grande share .
Nanni Moretti è molto amato in Francia e da sempre, ben accolto a Cannes.
Che Mia madre sia stato apprezzato alla proiezione per la stampa di ieri sera, suscitando commozione e risate e infine l’applauso sui titoli di coda (evento mai scontato durante le visioni per i giornalisti) non è poi così clamoroso.
Il Guardian è arrivato a paragonare Mia madre a Effetto notte di Truffaut e a 8 ½ di Fellini e il francese Positif (antagonista da sinistra dei mitici Cahier du Cinema) si è sbilanciato fino a definirlo addirittura: "un capolavoro per come racconta le emozioni. Potrebbe correre per la Palma d’oro".
In attesa di qualcuno che invochi l’Oscar, sorge spontanea la domanda se sia lecito o no esprimersi, se non proprio al ribasso, quantomeno con minore entusiasmo, senza per questo apparire incauti o peggio tacciati di gufaggine, come usa ultimamente in altri ambienti.
Per cautelarci da eventuali, possibili e indesiderati, linciaggi intellettuali, ci si può forse far scudo dell’autorevolezza di Dino Risi il quale, riguardo la produzione del collega romano (era il 2002, al festival di Venezia) sapidamente affermò:
«Moretti è uno che si piace talmente tanto da occupare sempre lo schermo con un suo primo piano. Viene da dirgli: spostati, fatti in là che devo vedere il film».
Finalmente, per la prima volta, sembra che il regista abbia tenuto in considerazione quella vecchia battuta dell'autore, lui si, di almeno un paio di Capolavori universalmente riconosciuti.
Per la prima volta, in questa occasione, si è scansato davvero e lo ha anche fatto con una certa classe, lasciando il posto ad una egregia Margherita Buy e a un John Turturro che buca alla grande proprio grazie alla stentata parlata da oriundo che gli è propria, nell'insolito ruolo dell'attore smemorato che fa impazzire regista e troupe al completo con le sue comicissime amnesie.
Dosando efficacemente farsa e tragedia come la consueta, intelligente, maestria gli consentono di fare.
Probabilmente il film che segna la raggiunta maturità di Moretti.
E la cosa non può che rallegrare tutti quelli che favorevolmente o meno lo hanno seguito durante l’ormai lunga e brillantissima carriera. Valutazione che tra l’altro può trovare conforto nella maniera in cui lui stesso definisce la pellicola: "Mia madre è un film su ciò che resta, qui, tra noi, vivi su questa terra. Ma è anche un film su ciò che resta delle persone che se ne vanno, che muoiono, i libri, i ricordi".
Perché dunque non accoglierlo come un buon film e il probabile segnale d’inizio di una nuova e stimolante fase creativa da seguire con attenzione?
Qualcuno ha detto che il genio di un regista non dura più di 10 anni.
Capolavoro o no, nel caso di Moretti è difficile negare che questo limite sia stato comunque meritatamente superato.
Tanti auguri Nanni e …che la sottrazione sia e persista con te!
Cannes 2015: Garrone, Moretti e Sorrentino alla resa dei conti con i colleghi francesi di V.B.