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19/11/24 ore

32° Torino Film Festival. Vincono il francese Jean-Charles Hue e l'ungherese Gabor Reisz



di Vincenzo Basile

 

Al 32.simo Torino Film Festival vincono Mange tes mortsdel francese Jean-Charles Hue e For some inexplicable reason dell’ungherese Gabor Reisz. Il primo, nella Quinzaine des Realisateurs aveva già guadagnato a Cannes il Premio Jean Vigo. Un dramma on the road sule tensioni interne di una comunità Rom della provincia Francese alle prese con questioni di identità e appartenenza etnica di alcuni suoi membri. Il titolo è l’insulto più insopportabile tra la gente di quel mondo. Certo discutibile, come si dirà rispetto ad altre opere, la scelta della Giuria presieduta da Ferzan Ozpetek e composta, tra gli altri, da GyörgPálfi e Carolina Crescentini.

 

Il Premio Speciale della Giuria insieme a quello del Pubblico (e poi della TV e degli Studenti) vanno invece all’ungherese Gábor Reisz, regista 34enne al suo primo lungometraggio, con For some inexplicable reason (Van valami furcsa és megmagyarázhatatl). Una originale commedia incentrata sul tema del giovane disorientato precario, scaricato dalla fidanzata che ne stigmatizza l’immaturità, smarrito nella fagocitante metropoli; in questo caso Budapest.

 

 

Aron deve trovare un lavoro ma costretto tra una madre ingombrante e la sua agonia sentimentale, fuori di testa, va in giro tra i bar e le strade di Budapest fino a quando, nel giorno del suo trentesimo compleanno, molla tutto e parte per Lisbona alla ricerca di sè stesso e di un senso da dare alla propria esistenza.

 

Ben accolto alla prima per la Stampa, ha riscosso due calorosi applausi a quella per il pubblico. Il primo al termine della proiezione e l’altro durante lo scorrere dei titoli di coda che non bisogna assolutamente mancare perché sorprendenti, una novità assoluta nel loro genere.

 

Armonizzate le scelte drammaturgiche su cui è costruita  la sceneggiatura finemente elaborata: dalla fiction al documentario, dalla commedia infarcita di humor alla Woody Allen al cinema tendenzialmente surreale di Gondry, fino alla commedia di costume e al cinema Veritè.

 

Agenzia Radicale ha incontrato l’autore per chiedergli quali criteri hanno ispirato la creazione di questo film.

 

AR: Come Opera Prima è piuttosto insolita una tale complessità di ideazione e scrittura. Qual è stato il tuo percorso creativo?

 

Reisz: mi ha sempre sorpreso vedere nel cinema ungherese più recente, dei timidi tentativi di imitare modelli narrativi americani. Ho visto storie in cui si parla un ungherese incomprensibile e lo stesso succede per le locations.

 

Per esempio se c’è una scena ripresa in un ospedale non sembra un ospedale ungherese e nei dialoghi non traspaiono i sentimenti, le situazioni, le gags e gli aspetti  quotidiani tipici della  nostra società. Queste sono le cose che mi vengono in mente quando penso ai film degli ultimi anni. Ho voluto fare un film che reagisce non solo alle angosce attuali del vivere in Ungheria ma che mostrando la gente di Budapest in modo  documentaristico rifletta e mostri la vita e i problemi della classe media locale. Con l‘utilizzo di un tema logico e di un linguaggio comprensibile avevo l’intenzione di reagire alla strana visione che l'industria cinematografica ha del suo pubblico. Solo creando qualcosa di significativo possiamo avere una migliore possibilità di esportare il nostro cinema oltre i nostri confini.

 

Nonostante l'approccio documentaristico, la trama principale è pura fiction ma con scene e situazioni tratte dalla vita di tutti i giorni, familiari a chiunque.

 

In questo film sia gli elementi positivi che quelli negativi sono indicati per descrivere con trasparenza la mentalità ungherese. C'è una grande varietà riguardo le immagini, il miscuglio di generi, lo stile di ripresa e la recitazione. I titoli di testa ne sono un esempio. Abbiamo usato diversi tipi di font per ognuno dei crediti  visualizzati.

 

Abbiamo inoltre costruito la narrazione impiegando scene oniriche alternate a scene realistiche. Seguendo la tradizione del cinema-veritè, il protagonista è il mio buon amico e compagno di studi presso l'Accademia del Cinema, Áron Ferenczik. Ma anche per altri ruoli ho utilizzato attori scelti tra miei amici e conoscenti e tutti i loro personali vissuti hanno contribuito alla spontaneità dello script che di conseguenza ha reso il film più onesto e attraente.

 

AR: Quali sono i tuoi registi di riferimento nel cinema nazionale?

 

Reisz: Beh… ovviamente Miklos Jancso e Bela Tarr ma anche se apprezzo moltissimo la loro lezione a me piace fare un cinema meno lento e contemplativo.

 

AR: E che mi dici di Kornell Mundrukzo e Gero Marcell? Anche quest’ultimo in Cain’s Children ha affrontato lo stesso disagio giovanile  seppure da un’angolazione molto più drammatica ed estrema della tua.

 

Reisz: ho naturalmente una grande considerazione del loro lavoro però sono assolutamente convinto dell’importanza dell’humor nel cinema in generale e nel mio in particolare.

 

AR: In sala ti è stato chiesto quali sono i tuoi programmi futuri e hai risposto che per ora vuoi rimanere concentrato sull’uscita e la distribuzione di questo film. Ti chiedo allora se anche senza un nuovo progetto hai comunque il desiderio di esplorare generi diversi dalla commedia.

 

Reisz: non so cosa farò in futuro ma sono certo che qualsiasi genere affronterò, il risultato  sarà sempre un film ad alto contenuto umoristico. Credo sia quella la chiave migliore per trasmettere le emozioni all’interno di una storia e fare in modo che gli spettatori possano meglio penetrare nello spirito del film e dei suoi contenuti.

 

AR: Che risultati di pubblico ti aspetti?

 

Reisz: il film è già nelle sale da alcune settimane, ha raggiunto le 26000 presenze e continua a rimanere in programmazione in prima visione. Considerando che 40.000 spettatori sono considerati in Ungheria un importante successo in termini di incasso, credo che possiamo ritenerci soddisfatti e mi auguro che questo premio non potrà che confermare e migliorare il trend.

 

 

Per l’ interpretazione in Felix & Meira del canadese Maxime Giroux, gli attori israeliani Luzer Twersky e Hadas Yaron hanno ricevuto il premio al miglior attore e attrice, quest’ultimo condiviso ex aequo dalla Yaron (Coppa Volpi a Venezia per La sposa promessa, 2012) con Sidse Babett Knudsen in The Duke of Burgundy del britannico Peter Strickland.

 

Nel ricco palmares torinese, va menzionato infine il Premio FIPRESCI al meritevolissimo francese Mercuriales di Virgil Vernier.

 

 

Doveroso citare What we do in the Shadows, di gran lunga il più importante tra gli esclusi dai riconoscimenti dalla giuria principale.

 

 

Viago, Deacon e Vladislav sono vampiri pienamente integrati nella società moderna: dal pagare l’affitto, fare i lavori di casa al ricevere inviti per le serate. Da comuni ... immortali si nutrono di sangue umano ma quando la vita di Stu, unico loro amico vivente, è in pericolo capiscono che forse vale la pena di combattere per gli umani, nei confronti dei quali, eccezionalmente, si possono provare sentimenti.

 

Firmato da Jemaine Clement e Taika Waititi che lo hanno scritto diretto e interpretato insieme a numerosi colleghi della commedia neozelandese tra cui Cori Gonzalez-Macuer, Jonny Brugh, Jackie Van Beek e Rhys Darby.

 

 

Il film è stato girato tra Wellington e Miramar, con troupe e talenti del posto. I ricercati interni della casa sono stati interamente realizzati da Ra Vincent a partire da materiale riciclato e i costumi e il trucco ideati da Amanda Neale e Dannelle Satherly, già collaboratori  di Waititi nei suoi precedenti lungometraggi. Come da progetto, durante le riprese si è trattato di improvvisare, prendendo spunto dal copione che gli autori avevano scritto senza però mostrarlo al cast.

 

Data l’imprevedibilità e il prolungamento delle riprese, sono state realizzate 125 ore di girato per ricavarne 90 minuti di storia. Per questo motivo la fase di montaggio è durata quasi un anno con sound mix portato a termine presso la società di Peter Jackson, la Park Road Post di Wellington. La colonna sonora è un mix eclettico di musica neozelandese, balcanica, russa, gitana, indiana, punk e folk da tutto il mondo amalgamata nell’arrangiamento dal celebre gruppo Plan 9, di Wellington.

 

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