Parabola di un unico carattere, attorno al quale però ne ruotano altri altrettanto interessanti, è il film di Nuri Bilge Ceylan Il regno d'inverno, Palma d'Oro a Cannes 2014 e uscito nelle sale italiane.
Aydin (Haluk Bilginer) è un ricco provinciale, un notabile cappàdoce, come lui stesso si definisce, di quella Cappadocia che fu nel IV secolo d.C. la patria di alcuni dei massimi Padri della Chiesa cristiana, e che oggi è naturalmente del tutto islamizzata. Aydin, che è però ateo, è il padrone dell'Hotel Othello, scavato tra le rocce di un paesaggio lunare e nebbioso, nel quale d'inverno si recano sparuti ospiti: è il caso di una giovane coppia giapponese dall'inglese stentato, e di un motociclista senza né arte né parte, ma apparentemente felice di scarrozzarsi dove meglio crede, trovandosi in una dimensione priva di riferimenti spazio-temporali.
Secondo una prassi a lui cara, e che rappresenta l'essenza del suo cinema, Ceylan tratteggia il ritratto di Aydin con una sceneggiatura fitta, verbosa e quasi bergmaniana quando il contenuto dei dialoghi tra Aydin e sua moglie Nihal (dal bellissimo viso di Melisa Sözen), o tra lui e la sua sorella Necla (Demet Akbag, ottima interprete di una depressa) si fanno aspri, impietosi dietro i chiaroscuri delle luci soffuse e giallastre e i legni delle stanze di montagna.
C'è poi Cechov, i racconti e il teatro del quale costituiscono una fonte di ispirazione essenziale e del resto riconosciuta. “Pause, silenzi, il 'non agito' hanno la stessa importanza degli accadimenti e degli snodi drammatici delle storie” (U. Rossi). Questo è vero più che mai per questa pellicola.
Il primo tempo ha un notevole impatto anche drammatico. Molto bello l'inizio, quando il protagonista e un suo dipendente factotum si recano da una famiglia di debitori dove la ribellione verso l'ordine e le gerarchie imposte è ringhiosa ma latente: la dignità che in fondo emana questa famiglia è forse in grado di incrinare le modeste certezze del loro creditore-padrone di casa, che oscilla tra attitudini di benevolenza, sprezzo, arroganza di chi ha il diritto dalla sua. Nulla, in queste sequenze, come nel resto del lavoro, ha a che vedere col genere giallo, come pure taluni hanno sostenuto.
Poi il film si sfilaccia un po', ci sono momenti di incoerenza, accelerazioni narrative, salti logici. Il disvelamento del carattere del protagonista bene si coniuga con l'azzeccata resa italiana del titolo (Winter sleep traduce alla letterail turco Kış Uykusu): il nostro è una sorta di re del suo mondo, un autocrate fragile e contestato, tuttavia, e quello che passa sotto gli occhi dello spettatore non è solo l'inverno meteorologico e stagionale dell'Anatolia ritratto da ambienti interni più che paesaggi esterni ma è anche l'inverno di una realtà sociale amorfa, immobile, in crisi e dove l'indolenza rende ciascuno, e Aydin in primo luogo, incapace di star bene.
E' il suo inverno esistenziale, in definitiva, sebbene egli si illuda sullo scorcio finale della pellicola di essere cambiato, di essere finalmente un “uomo nuovo”, come senza tema di ridicolo e di patetismo egli stesso si compiace di definirsi – senza ragioni vere se non quella di un beau geste, una cospicua donazione a favore di un'associazione filantropica presieduta dalla sua giovane moglie Nihal, e probabilmente della decisione di scrivere una storia del teatro turco, a lungo covata.
Si tratta poi anche di una storia costruita sulla dialettica arcaicità/modernità, tipica della cinematografia ceylaniana e legata alla biografia del regista (nato a Istanbul ma vissuto da ragazzo a Yenice sull'Egeo), ma che non sa attingere ai livelli di C'era una volta in Anatolia. Qua, l'arretratezza degli insediamenti degli altipiani cappadoci, dove l'allevamento e la vendita dei cavalli riconfluisce nella rappresentazione di un mondo meschino e di una crisi sociale (quella della Turchia contemporanea, nella prospettiva del regista), ha come contraltare puramente retorico Istanbul, sempre e solo Istanbul (menzionata a più riprese come la sede di una diversità cosmopolita e liberatoria), la città, la capitale, il luogo dove nessuno riesce ormai più ad andare, o a ritornare.
Già, perché le maschere principali dell'opera hanno un passato (Aydin è stato un attore, ora al più si dedica al giornalismo di denuncia per un pubblico di poche anime di paese, sua sorella è stata sposata), ed è un passato migliore del presente, anche per chi trascorsi felicissimi non ha, come la giovane moglie di Aydin. Una umanità che si arrabbatta inutilmente quella del Regno d'inverno, che cerca di darsi un'identità e un posto nel mondo senza riuscire a convincere nemmeno se stessa.
Giovanni Alberto Cecconi