Valore aggiunto: la misura dell'incremento di valore che si verifica nell'ambito della produzione e distribuzione di beni e servizi finali grazie all'intervento dei fattori produttivi (capitale e lavoro) a partire da beni e risorse primarie iniziali. Di risorse iniziali primarie, ne 'Il Capitale umano' ce ne erano almeno due: c'era un nome, Paolo Virzì; c'era un libro, il romanzo omonimo di Stephen Amidon.
Nessuna delle due è stata sufficiente ad evitare la solita sfilata di maschere che la cinematografia italiana ama così tanto portare sullo schermo. Vicino a Milano si intrecciano le storie di un immobiliarista fallito (Fabrizio Bentivoglio), di uno speculatore finanziario (Fabrizio Gifuni) e delle loro famiglie: impigliati nelle maglie del capitalismo più bieco, i protagonisti saranno disposti a sacrificare ogni valore e a dare un prezzo a qualsiasi cosa, anche alla vita umana.
Tramontate le infuocate polemiche sulla rappresentazione di una Brianza che non va giù a leghisti vari, e che probabilmente rispecchia esattamente la realtà, quel che resta è una tragedia i cui personaggi fanno a gara a chi più fedelmente ricalca solidi clichè e noiose macchiette (vedi l'immobiliarista-arrampicatore sociale tutto sorrisi e chewin-gum o il figlio unico dell'uomo ricco, capelli lunghi e parolaccia sempre pronta).
Il mondo di Virzì è un mondo tagliato con l'accetta, i cui pezzi sono poi assemblati seguendo le istruzioni che la realtà detta, non il Cinema. Perchè così vanno le cose là fuori, sembra suggerire la pellicola, ma il problema è che tutti sanno già che le cose vanno così là fuori.
Forse, ed è un rischio che il Cinema deve correre, quello che sarebbe stato interessante assoporare è un'interpretazione di quella terribile verità, di quel magma ribollente che Virzì, attraverso precise regole narrative e di genere, ricopre invece con paesaggi innevati e freddi.
Nella partita a scacchi con l'inquietudine di esistenze perdute e imperanti egoismi, la retorica populista vince su tutto, annientando quel potenziale fortissimo che una simile realtà conteneva in nuce. Tutto, nel film, è esemplificato al massimo, statico, perennemente uguale a se stesso, senza il minimo accenno all'imprevedibilità, alla metamorfosi, a quel qualcosa che sfugga allo schema.
Ogni così è illuminata, ma dalla stessa identica luce, senza possibilità di un chiaroscuro, senza profondità, senza un punto di fuga che evidenzi gli spigoli di un'opera che pretende di essere dura e spietata e invece si rivela quasi indulgente.
Solo il personaggio di Serena, la giovane figlia dell'immobiliarista, sfugge alla monotonia di quanto rappresentato, vestendo i panni della scelta, del coraggio, della responsabilità; un bocciolo di possibilità che Virzì ha scelto di schiacciare con il peso di un finale mirato a mantenere intatto lo status quo: i ricchi restano tali mentre un rapido pensiero di morte è ciò che rimane in fondo ad un burrone, lontano da occhi e memoria.
E 'Il Capitale umano' finisce con l'essere solo quello, quattro righe bianche su sfondo nero, al 115° minuto, prima dei titoli di coda.