Il rugby, scriveva il buon Wilde, è “il modo migliore per tenere trenta energumeni lontani dal centro della città”. O uno solo lontano dai guai, si potrebbe aggiungere dopo aver visto 'Il Terzo Tempo', primo lungometraggio di Enrico Maria Artale presentato a Venezia nella sezione Orizzonti e in questi giorni nelle sale italiane.
Samuel è un adolescente problematico che, a causa di piccoli furti, rapine e aggressioni, ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in un riformatorio minorile; dopo aver scontato l'ennesima condanna, il ragazzo ottiene la semilibertà e viene inserito in un programma di riabilitazione che prevede il lavoro in un'azienda agricola della provincia romana: qui, Vincenzo, l'assistente sociale che si occupa di lui, lo introdurrà nella squadra di rugby di cui è allenatore.
E il nostro eroe andrà incontro alla più classica delle trasformazioni. Una storia semplice, archetipica, per un film che non ha alcuna pretesa, se non quella di raccontare il riscatto, la canalizzazione di un'energia negativa in qualcosa di costruttivo, attraverso una delle più educative pratiche ludiche inventate dall'uomo: lo sport.
Assorbendo e metabolizzando lentamente le regole di un gioco che fa del contatto – solo all'apparenza violento – , della fiducia e del rispetto degli altri le sue basi fondative, il giovane protagonista intraprenderà un percorso di redenzione dentro e fuori da quel campo di terra e fango dove la macchina da presa del regista lo segue con estrema attenzione, rimanendo costantemente attaccato a un corpo provato dalla fatica della rinascita (sia fisica che emotiva).
Lo spettatore accompagna così Samuel nella sua difficile comprensione di quel terzo tempo che unisce gli animi e insegna lealtà, tra boccali di birra bevuti con gli avversari e barbecue serali conditi da cori da stadio, e qui lo lascia, allievo meno ribelle e più capace di dominare i propri istinti insani.
Affidando la narrazione agli stilemi tipici del cinema di formazione, Artale, assieme ai co-sceneggiatori Francesco Cenni e Luca Giordano, costruisce un film che si nutre di diversi temi - dal fine rieducativo che il carcere dovrebbe avere, alle modalità sottovalutate di reinserimento degli ex detenuti nella società, dalla potenza purificatrice dello sport all'amore e alle amicizie che rigenerano – e lo fa con una sobrietà in grado di sopperire alla poca originalità dell'intreccio e alla sua (inevitabile) prevedibilità.
Ottimo tutto il cast, in cui spicca un promettente, spontaneo Lorenzo Richelmy affiancato dall'ottimo Stefano Cassetti (burbero coach) e dalla bella e delicata Margherita Laterza. Nonostante, dunque, qualche ingenuità nella costruzione visiva del film, 'Il Terzo Tempo' si pone decisamente come esempio di quel cinema giovane italiano che si deve avere la tenacia (e il coraggio) di produrre e sostenere: la fiducia, ogni tanto, viene ben ripagata. Rugby docet.