Una degnissima opera seconda, tra i lavori non documentaristici di Andrea Segre, dopo il toccante Io sono Li . Il film La prima neve, prodotto da Marco Paolini e pronto per la distribuzione nelle sale, è stato presentato in anteprima nazionale al Teatro Verdi di Firenze l'8 ottobre, in presenza del suo giovane sceneggiatore e co-soggettista Marco Pettenello.
A Pergine, una località sperduta della val dei Mocheni nel Trentino, fra i boschi verdeggianti piegati dal vento e gli alberi talora spettrali e resi obtorti dal freddo, finisce a lavorare Dani (Jean-Christophe Folly), un giovane nero del Togo, passato dai cancelli della Libia e da lì di nuovo in fuga per un altrove che accade essere in Italia. Una didascalia iniziale non rinuncia a denunciare i termini numerici della tragedia legata alla direttrice migratoria Libia-Italia.
Il mare attraversato è nero (verrebbe voglia di dire oggi rosso scuro), la risalita della Penisola e il soggiorno nell'estremo nord un evento del fato, non cercato, rispetto al quale Dani è impotente: così egli si esprime in due momenti del film. La moglie del giovane è deceduta di parto, e l'intollerabilità di questa perdita non è mitigata dalla presenza della piccolissima figlia.
In questo villaggio di montagna il giovane lavora come collaboratore e tagliabosco di un anziano allevatore di api, che ha a sua volta perso il figlio e vive vicino alla nuora Elisa (Anita Caprioli, madre impegnata tra mille difficoltà, donna bella, inquieta e fragile) e al nipotino Michele (Matteo Marchel), ragazzino non ancora adolescente, riottoso, indocile, malamente scolarizzabile.
I disagi, i confitti tutti interiori, il dolore e pure i momenti di serenità che riguardano i vari personaggi, passano tutti dai suoi occhi, dal suo cuore e vengono riflessi nei suoi comportamenti. Forse egli è il protagonista del film, ancora di più che non lo stesso Dani, il cui ritratto umano si completa del resto proprio grazie al rapporto di amichevole complicità che instaura con Michele, dando vita a uno dei fili conduttori dell'opera.
Segre, adattandosi a una sceneggiatura sobria e efficace (a parte rarissimi cedimenti alla tentazione un po' forzata di far sorridere), ritrae l'integrazione tra uomo e natura, sulla quale indugia con suggestivi carrelli e inquadrature lontane degli altopiani nebbiosi.
Nuovo è anche, nel cinema di Segre, l'elemento onirico: l'incubo ricorrente del bambino quando dorme a casa con sua madre (che ritiene in qualche modo responsabile della morte improvvisa del padre), espresso facendo ricorso a flash di una fotografia pastellata color ruggine, a movimenti di macchina sghembi, a squarci di situazioni inattese.
Senza rinunciare alla sua percebile vocazione documentaristica (e di documentarista che ha sempre messo al centro dei suoi lavori i temi del lavoro e soprattutto della immigrazione, ai quali si è dedicato anche come sociologo), Segre riesce con mano garbata e incisiva a un tempo a trasmettere allo spettatore il valore concreto tangibile quotidiano dell'incontro non così casuale di tanti individui, i quali costituiscono una comunità che ha un carattere unitario, un ordine, una stabilità: quasi come i semi del filosofo presocratico Anassagora, le omeomerie, le particelle originarie che si assomigliano tra loro e col tutto (gli esseri viventi e le cose), che vanno a creare nel loro incessante movimento.
Qui risiede una diversità rispetto alla fatale e non commutabile infelicità, venata di razzismo, presente in Io sono Li. La prima neve prelude al finale, relativamente ottimistico, che dà un senso di armonia a queste intersezioni di un cosmo che è e deve essere uno solo, di una umanità che senza retorica e melassa sembra almeno per una volta essere capace di collaborare con forza solidale e, sia pure in un contesto locale e modesto, in una prospettiva di spontanea multietnicità, sullo sfondo di una natura che non è mai ostile, neppure quando è causa di morte.
Tra gli altri attori spicca, sia pure con una presenza marginale, Giuseppe Battiston, interprete di una delle poche figure lievemente inquietanti e aggressive del film.
Giovanni A. Cecconi