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16/11/24 ore

'Zoran', l'eroe scemo del villaggio


  • Florence Ursino

“Sempre pronto a una nuova idea e ad un antico vino”: così si dichiarava Berltold Brecht. E così deve sentirsi anche Paolo Bressan, alcolista svogliato e cinico, quando fra le mani gli capita un nipote – 'eredità' di una lontana zia slovena – con un notevole talento nel gioco a freccette.

 

L'uomo decide dunque di cogliere al volo l'occasione facendo fruttare il talento di quel ragazzino timido e occhialuto che la sorte gli ha messo fra le mani per fuggire finalmente dal quel silenzioso paesino del Friuli in cui trascina la sua esistenza tra mense per anziani, boccali di vino e pranzi domenicali col nuovo marito della sua ex moglie.

 

Destino, territorio, tradizione (alcolica e non solo), riscoperta: l'opera prima di Matteo Oleotto, 'Zoran, il mio nipote scemo' - Premio del Pubblico Rarovideo della Settimana della Critica al Festival di Venezia – è un perfetto quadrato semiotico costruito su una serie di rapporti così ben definiti da dar vita ad una narrazione articolata, fluida, efficace.

 

Con la complicità di un azzeccatissimo politically Scorrect, di una sceneggiatura solida e precisa (firmata da Daniela Gambaro, Pier Paolo Piciarelli e Marco Pettenello) e della straordinaria performance di Giuseppe Battiston e del promettente Rok Prašnikar, Oleotto mette su una commedia dai toni caricaturali e sfacciati senza mai forzare la mano sui connotati dei suoi personaggi: Bressan è un grosso, sgradevole, bugiardo quarantenne ubriacone e 'così è se vi pare', sembra voler dire il regista, confezionando un film che non deve essere simpatico, o catartico o demistificatore.

 

Non c'è anelito alla redenzione, in 'Zoran', ma la potente metamorfosi scatenata dai sentimenti umani, negativi o positivi che siano: l'amore, certo, che insegna a un pallido ragazzino a mancare il centro e guardare oltre; l'amicizia, una cucina di notte contro le sirene lampeggianti di una realtà che non si accetta; la frustazione, in quei calici vuotati senza assaporare.

 

Un coro di emozioni che, come le voci nel film, devono esercitarsi e cantare all'unisono per trovare il filo sottile dell'armonia. E Oleotto, bacchetta in una mano e macchina da presa in un'altra, fra canti popolari e qualche 'devi stare muto' qui e là, ha diretto la sua orchestra senza timori né boria: d'altronde si sa, il vino fa cantare. E il buon cinema anche.


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