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16/11/24 ore

Dibattito intorno al 40° Congresso Straordinario del Partito Radicale. Intervento di Lorenzo Strik Lievers



ll 9 luglio scorso, ai sensi dello Statuto del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, articolo 2, un terzo degli iscritti da almeno sei mesi al partito ha convocato il 40° Congresso straordinario del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, da giovedì 1 settembre (a partire dalle ore 14) a sabato 3 settembre, a Roma, presso il penitenziario di Rebibbia, Via Raffaele Majetti 75, con il seguente ordine del giorno:

 

  • relazione del Tesoriere;
  • saluti istituzionali del Ministro della Giustizia, del Direttore del DAP, del Direttore del penitenziario di Roma Rebibbia;
  • approvazione dell'ordine dei lavori, dell'ordine del giorno, del regolamento congressuale;
  • dibattito generale sullo stato del Partito;
  • Eventuali modifiche statutarie proposte in Congresso;
  • Approvazione della mozione;
  • Elezione degli organi.

  

Questo il comunicato dei convocatori del Congresso straordinario. Quaderni Radicali e Agenzia Radicale ritengono utile l’apertura di un dibattito precongressuale in questa fase critica e difficile dopo la morte di Marco Pannella.

 

Di seguito l'intervento di Lorenzo Strik Lievers

 

 

 

  

 

Se immaginiamo che i radicali abbiano un futuro: idee per un partito transnazionale da ricostruire

 

di Lorenzo Strik Lievers

 

La realtà radicale quale si presenta oggi è quella di una scissione  sviluppatasi progressivamente e che sta giungendo oggi alla sua fase finale. Da entrambe le parti se ne è consapevoli,  e si opera per giungervi nelle condizioni migliori per il proprio raggruppamento;  del che non c’è da stupirsi né da scandalizzarsi, in un contesto di questo genere: è solo naturale. Questo fa sì, però, che ogni argomento usato nel confronto,  a partire da quelli “procedurali”,  circa la legittimità della convocazione del congresso del Partito radicale transnazionale, o circa i poteri del Senato del Partito, o circa le modalità di svolgimento del congresso in carcere, ecc., appaia viziato in radice: nella più parte dei casi, si tratta non di momenti di effettiva ricerca di soluzioni migliori o meglio rispondenti alle finalità comuni e ai caratteri e alle regole del movimento radicale e della sua storia, ma di meri strumenti di battaglia contro il gruppo avversario. Del tutto legittimo, s’intende, e normale nel corso di una battaglia politica.

 

E fatto un po’ da tutti con le migliori intenzioni posto che ciascuno  - ne sono personalmente convinto -  ritiene che la sua parte porti con sé oggi il meglio delle ragioni e delle speranze radicali, e che quello che davvero conti perciò  nell’interesse di quelle ragioni e speranze sia il successo della propria parte ai danni di quella avversa. Ma questa così palese strumentalità – evidentissima nella riunione precongressuale di iscritti del 6 agosto – non induce in definitiva ad addentrarsi  nelle ragioni che gli uni e gli altri adducono, volte al fine pratico del  prevalere di uno dei due “partiti”. Mi permetterò dunque di non entrare neppure in questo tipo di discussione. 

 

La domanda essenziale, intorno alla quale conviene ragionare, l’ha posta Adriano Sofri nell’articolo magistrale che ha aperto  il dibattito: che fine faranno i radicali? Che non è neppure, in primo luogo,  il tema di chi vincerà il congresso: la parte  che risulterà soccombente, e che non potrà dunque dirigere il Partito radicale transnazionale e utilizzarne il nome, cercherà altri strumenti per sviluppare le proprie iniziative, a seconda di quelle che saranno le sue ambizioni e le sue capacità.  Contano e importano invece le conseguenze che la scissione potrà avere, e gli indirizzi politici che i radicali vorranno e sapranno darsi.

 

La scissione probabile. Inevitabile? Ma se....

 

Le scissioni, si può anche dire o pensare, talora sono opportune: fanno chiarezza, consentono a chi persegue un indirizzo di farlo senza essere appesantito da remore e contraddizioni. E nel  nostro caso può darsi che sia così: le tensioni che si sono accumulate, anche alla fine personali, in quello che era il gruppo dirigente radicale sono tali da  rendere ormai difficile un operare comune. Tanto più nel momento in cui non possono più esercitarsi la guida e la superiore garanzia di Marco Pannella. E nel momento in cui il movimento radicale ha comunque definitivamente cambiato natura in uno dei suoi aspetti essenziali: giacché, come ha osservato Sofri, se “la formazione radicale non è edificata sulla roccia (....), caso mai la roccia era Marco: la sua persona, non una sua dottrina, o una sua ideologia.”  Dalla trasformazione che inevitabilmente deriva dalla scomparsa di Marco quella che può uscire – se qualcosa saprà uscire e svilupparsi -  non potrà essere che una cosa  diversa da quel che si era conosciuta finora. Perché, allora, si potrebbe sostenere, deve essere una cosa sola, e non due diverse? Tutto vero. E però.

 

Però, non si tratta tanto di fare uno di quegli appelli all’unità che suonano di solito stucchevoli e vuoti, quando non strumentali anch’essi; ma di misurare piuttosto alcuni effetti che  presumibilmente la scissione porterà con sé. In primo luogo quello del discredito complessivo che la frattura, e le inevitabili accuse reciproche, e polemiche, e insulti, e insinuazioni, getteranno sulle due realtà radicali residue.  Per non dire dell’immagine di debolezza estrema, magari finale, che ricadrebbe su entrambi i pezzi di una parte politica  che già da tempo, sotto tanti punti di vista, appare esigua di forze: sicché l’uno e l’altro troncone tenterebbero la nuova impresa con l’handicap di apparire ormai solo frammenti  residui ed esauriti di quella che era stata una forza reale e magari  gloriosa, ma in un passato ormai chiuso.

 

Dunque con un’esigua, o quasi nulla credibilità politica, a questo punto; come è stato dei gruppi che hanno preteso di continuare alcuni dei partiti della prima repubblica.  Ed è inutile sottolineare quanto l’immagine conti nell’agire politico, e pesi, e possa pesare anche come pietra tombale.  Vero, potrebbe obiettare chi ricorda proprio la storia radicale, che lo stesso, e anche in termini più pesanti,  si sarebbe potuto dire allo sparuto gruppetto di giovani senza mezzi e ignoti all’opinione pubblica che, dopo la scissione e scomparsa fra schizzi di fango del primo Partito radicale, nel 1963 proclamarono se stessi Partito politico. Ma quelli si chiamavano Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia, Mauro Mellini, Angiolo Bandinelli, Massimo Teodori, Giuliano e Aloisio Rendi, e via proseguendo: dov’è oggi, in ciascuna delle due correnti, una tale aggrupparsi e sommarsi di qualità e capacità?

 

Se poi guardiamo alla storia radicale, vediamo altri momenti e fasi in cui fra i radicali si sono determinate tensioni anche molto forti fra impostazioni, approcci e anche mentalità e finalità diverse.  Pensiamo, per esempio,  a quando Pannella sottolineava, fra asprezze di scontri interni, l’esistenza di due filoni direi antropologicamente diversi fra noi,  quelli che definiva polemicamente “radicaldemocratici” e quelli che di contro  chiamava “radicalnonviolenti”. Avrebbero potuto esserci tutte le premesse di una separazione: ma la differenza stava proprio nel ruolo dello stesso Pannella. Il quale conduceva sì con la durezza di cui era capace la polemica con quanti erano su una linea diversa dalla sua, ma insieme – in coerenza con la sua teoria e prassi di partito laico, capace di unire per un tratto breve o magari lunghissimo persone diverse fra loro anche per concezioni politiche e visioni del mondo – “teneva insieme”, garantiva il con-vivere  nel partito degli uni e degli altri.

 

Molti si sono allontanati, per proprie differenti scelte, o proprio per non voler più operare nell’ambito di quella leadership.  Certo: ma Pannella, lui, non  ha mai cacciato nessuno.  Ed è stata proprio una delle cifre  della sua leadership  e della storia radicale, e dell’ efficacia dunque dell’agire politico dei radicali, questo poter operare insieme. Quanto c’era in comune, per  modo di pensare ma anche per  prospettive e speranze politiche, tra Franco Roccella,  Adele Faccio, Massimo Teodori, Giogio Inzani, Marcello Crivellini, Roberto Cicciomessere?

 

Eppure  sono stati loro - essi insieme, e tanti con loro – il Partito Radicale. O anche: quante volte, anche dopo la svolta transnazionale, nel movimento radicale  hanno convissuto priorità tutte relative, di fatto, alla scena italiana con quelle riferite alla dimensione transnazionale?  Un convivere che vedeva magari alcuni concentrati interamente sulle priorità italiane, altri  invece impegnati su quelle transnazionali.

 

Si può, allora, fare adesso come un tempo? Probabilmente no; anzi, sicuramente no. Troppe cose sono cambiate; in primissimo luogo, manca Pannella. Ma se quello che sto dicendo ha un senso, occorre – occorrerebbe? – uno slancio di fantasia da una parte e dall’altra per trovare non una formula di compromesso, ma modi nuovi per consentire che ciascuno possa coltivare vocazioni politiche anche differenti ma tenendo vivo un legame politico  che sarebbe così legame  con una storia, un metodo, criteri, un costume politico che sono comuni, e che hanno caratterizzato e distinto sin qui da ogni altra l’esperienza politica dei radicali:  attraverso formule federative? dando concretezza all’antico motto dell’unione laica delle forze? facendo vivere in altro modo l’idea della doppia tessera, che è appunto quella di consentire la comune, laica militanza, intorno a obiettivi di volta in volta individuati, di persone che pure hanno priorità, obiettivi, strategie politiche diverse, in qualche caso contrapposte?

 

Non trascuriamolo: una rottura insanabile nei termini che oggi si prefigurano  suonerebbe smentita  clamorosa alla praticabilità stessa di questo principio che i radicali hanno sempre proclamato come un cardine della propria idea di politica laica, fondata sulla responsabilità personale di contro all’idea “militare” di disciplina di partito. Smentita forse definitiva: se neppure i radicali, fra loro, riescono ad attuarla..... E non trascuriamo il senso, e la lettera, dell’ultimo intervento politico pubblico di Pannella, che – in molti, forse, l’abbiamo avvertito – egli stesso sentiva probabilmente come l’ultimo: quello al Comitato di Radicali Italiani  in cui, con la voce rotta dalla commozione, egli continuava a ripetere: “vi voglio bene, siete tutti miei figli”. Un messaggio, un mandato, un’estrema indicazione politica.

 

Il partito attuale come comitato promotore di un rinnovato partito transnazionale.

 

È prevedibile che il congresso abbia un esito come quello che sto auspicando, giunte le cose al punto in cui sono?  Temo di no, non posso negarlo. Ma è stato sempre Pannella a esortarci a giocare sul possibile contro il probabile; questa, in tanta parte,  la cifra del suo agire politico, e dunque della storia radicale, con i suoi successi e insuccessi. Mi pongo dunque in questa prospettiva, quella non probabile ma possibile di un rilancio del Partito radicale nonviolento, transnazionale e transpartito.  Tenterò di figurarmene alcune condizioni. 

 

Immaginiamo, per un momento, l’improbabile: che si riesca ad uscire dall’attuale contrapposizione frontale fra inconciliabili. Che si realizzi, o si tenti, una  nuova intesa che, come dicevo, consenta alle diverse anime radicali di impegnarsi in primo luogo su quelle che ciascuna sente come le proprie priorità. E’ evidente  che in questo caso la guida e la responsabilità politica del rinnovato Partito transnazionale  non possono non essere affidate a quella, o quelle, componenti  che  sui temi transnazionali hanno sviluppato il proprio impegno; a condizione che alle altre rimanga garantita la piena  possibilità della titolarità radicale e dell’utilizzo delle strutture e degli strumenti comuni.  Difficile arrivare a concretare un equilibrio di questo genere nei tre giorni di un congresso comunque straordinariamente   complesso, senza un’adeguata preparazione?  Certo. Diciamo magari anche impossibile. Ma si  può forse  pensare ad avviare un cammino in questa direzione.

 

Va detto peraltro che se l’intento sarà quello di far proseguire e di rilanciare l’esperienza del Partito radicale transnazionale, anche sotto altri e più generali aspetti il congresso non potrà che porsi come momento di avvio di un processo di complessivo ripensamento e ricostituzione.  Se il Partito è stato, lungo i decenni, un eccezionale, unico soggetto di azione politica transnazionale per i diritti della persona,  è evidente che come corpo politico collettivo si è via via quasi dissolto.  Difficile definire partito politico transnazionale – se non idealmente, come manifestazione di intenzione e speranza - un’organizzazione che non arriva a mille iscritti, tutti o quasi cittadini di un solo paese; e del tutto privo ormai di quegli strumenti e quelle occasioni politiche che più di un ventennio fa avevano consentito di avviare la formazione di un effettivo partito di quel tipo. Questo congresso oggi – se vuol essere altro che una semplice resa dei conti interna – non può che porsi come quello che si propone  la ricostruzione di un vero partito transnazionale. Gli organi che esso eleggerà dovranno perciò avere il mandato di  operare come il comitato promotore del rinnovato partito: l’intero Prntt dovrà, per una fase, assumere questo carattere di “comitato promotore”, attraverso una complessa opera di iniziativa politica, ma insieme e perciò di nuova riflessione, su una molteplicità di piani. Cercherò di indicarne alcuni.

 

Il primo sarà, evidentemente, la continuazione, il perfezionamento e lo sviluppo, con gli strumenti che si sapranno creare, delle battaglie già intraprese: innanzi a tutte, l’ultima grande battaglia impostata da Marco Pannella sulla transizione verso lo stato di diritto a partire dalla statuizione del diritto alla conoscenza. Ma  anche ai fini del successo  di  questa così ampia e impegnativa battaglia, si impone a mio avviso come indispensabile l’avvio di una riflessione sui termini profondamente nuovi della situazione in cui oggi si tratta di operare rispetto a quella di un tempo. 

 

Anche e proprio nel momento in cui puntiamo ad ottenere un solenne riconoscimento  internazionale e sovrannazionale di un diritto della persona, non possiamo non ragionare a fondo sulla crisi sempre più grave che stanno attraversando le istituzioni inter- e sovrannazionali: in primo luogo l’ONU, cui chiediamo di proclamare il nuovo diritto, e l’Unione Europea, grazie alla cui influenza nelle sedi internazionali abbiamo fin qui ottenuto i grandi successi del PRTT. Se così stanno le cose, quali  le vie da percorrere per giungere a ottenere in sede ONU la dichiarazione che auspichiamo? Ma anche: come far sì che essa sia poi tale da poter incidere davvero sulla realtà, se è l’Organizzazione  delle nazioni Unite stesse  a pesare sempre meno?

 

E poi, più ampiamente: se si pone mente a quanto  profondamente sia mutato il contesto rispetto a quello degli anni in cui l’impresa del PRT era stata concepita e avviata, emerge in tutto il suo spessore la questione del se e del quanto ciò comporti la necessità che una forza politica come quella che vogliamo costruire, o ricostruire, debba e sappia assumere una funzione almeno in parte diversa da quella cui si era pensato un tempo.

 

Un contesto mondiale radicalmente mutato

 

Tra fine anni ’80 e i primi anni ’90, si viveva la crisi del sistema internazionale comunista, sia nella sua versione sovietica che giungeva al collasso, che anche in quella cinese. Si affermava il primato incontrastato dell’egemonia degli USA, che più che mai intendevano e proclamavano se stessi tutori e promotori della democrazia e dei diritti umani nel mondo; e all’Unione Europea guardavano i paesi che si liberavano dall’oppressione totalitaria sovietica  come al luogo e alla via per trovare una tutela sovrannazionale alla propria speranza di libertà democratica. Un quadro, certo, carico anche di contraddizioni e di laceranti tragedie; ma in cui comunque il Partito transnazionale  federalista europeo della democrazia e del diritto aveva  un suo senso in qualche modo immediatamente evidente, poteva ben esprimere lo stesso spirito del tempo, e non per nulla era accolto nei paesi che uscivano dal comunismo come un segno e un luogo delle speranze e delle attese nuove.

 

In qualche modo, si sarebbe potuto dire, il Partito radicale proponeva all’Occidente  - alla superpotenza egemone e all’Unione Europa allora al massimo del suo prestigio -  vie diverse da quelle tradizionali, e più efficaci e “vere”, per raggiungere proprio gli obiettivi di riorganizzazione del mondo che esso, l’Occidente,  proclamava e sentiva come propri:  vie che puntavano a superare i limiti delle “democrazie reali” e ad affermare il principio della tutela sovrannazionale dei diritti della persona.  Ai popoli che ancora vivevano in regimi di aperta e conclamata negazione dei diritti di democrazia e libertà, il partito voleva aprire strade di liberazione coniugando diritto, nonviolenza e democrazia.  In un quadro come  quello, e partendo dalla constatazione che le scelte decisive ormai sono tutte operate in una dimensione sovra- e transnazionale, era stato progettato lo strumento politico di un partito quale mai era stato concepito fin lì: non un’organizzazione che federasse partiti nazionali, dominati perciò dalle loro logiche nazionali, ma un partito di cittadini che pur attivi in un partito nazionale scegliessero di operare insieme , attraverso le frontiere, su comuni obiettivi a dimensione transnazionale. Magari depositando nello stesso momento in diversi parlamenti nazionali la medesima mozione.

 

Che la realtà odierna sia radicalmente diversa è sotto gli occhi di tutti. Rimane più che mai vero, e semmai più drammaticamente vero di allora, che la dimensione transnazionale è quella decisiva, e che per chi voglia agire sulle sorti del mondo assume o assumerebbe un valore essenziale un’efficace organizzazione politica transnazionale di cittadini  . Ma per il resto: oggi, per ragioni su cui non posso qui tentare un’analisi, soffia impetuoso in occidente il vento di un “sovranismo” antipolitico che assume quale valore preminente l’affermazione del “noi”, nazionale, o regionale, o etnico o altro affine; e che svaluta e contesta insieme le organizzazioni sovrannazionali (Unione Europea, ONU ecc.) e la logica del primato dei diritti della persona umana al di sopra delle sovranità degli stati.

 

Sotto l’onda delle possibili vittorie elettorali lepeniste, grilline  e via elencando, dopo la Brexit  l’Unione Europea è a un passo dal dissolversi, e sembrano urgere alla porta i fantasmi di un passato funesto; negli USA la possibile vittoria di Trump  - ma già l’ampio successo di Sanders -  esprime un’ormai fortissima domanda che in una forma o nell’altra la superpotenza americana rinunci a quel ruolo di pilastro di quel che esiste di democrazia liberale nel mondo che è stato il suo dalla seconda guerra mondiale, pur fra enormi contraddizioni.

 

E già, comunque, negli equilibri internazionali, per non dire nelle prospettive future, grava il peso ogni giorno crescente di potenze come la Cina,  modello di sviluppo economico e di modernizzazione radicalmente antiliberali, e della Russia di Putin, o dell’Iran degli ayatollah e della Turchia di Erdogan.  Intanto dilaga nel mondo islamico il fondamentalismo estremo che interpreta l’islam negando in radice quella modernità che attribuisce un valore essenziale ai diritti della persona, a partire da quello alla vita:  e appare fin qui vincente   nell’imporre guerra nel mondo islamico  e di lì ovunque, mirando a portare il mondo alla guerra di civiltà.

 

Compiti nuovi e una duplice necessità: giungere a rinnovare la forma del partito e a creare un nuovo nucleo dirigente transnazionale.

 

In questo quadro, più che mai preziosa, se si riuscisse a darle vita, una “parte politica” transnazionale dello stato di diritto e dei diritti sovrannazionali della persona. Non più ora, purtroppo,  per esprimere lo “spirito del tempo”, come poteva essere un quarto di secolo fa; ma per contribuire a contrastare il prevalere delle correnti d’opinione funeste oggi dilaganti un po’ ovunque.  Compito essenziale: ma evidentemente del tutto fuori dalla portata delle energie radicali quali esse oggi sono.   E tuttavia:  chi altro se non i radicali, con la loro storia, con la loro tradizione, con il patrimonio della lungimirante intuizione di Marco Pannella tra gli anni ottanta e i novanta sull’esigenza di una politica transnazionale, chi altro potrebbe porsi oggi un tale obiettivo?

 

È questa considerazione che mi fa pensare a  (o sognare di?) un Partito radicale che esca dal congresso con l’ambizione smisurata, e con l’umiltà, di porsi come comitato promotore di un simile rinnovato partito transnazionale.  L’obiettivo, in tal caso, non sarebbe più in primo luogo quello di trovare degli iscritti come sostenitori e finanziatori dell’operare di un gruppo dirigente; ma piuttosto quello di formarlo, un gruppo dirigente. Effettivamente transnazionale e transpartitico.

 

Il “comitato promotore” dovrebbe, in questa prospettiva, non tanto trovare degli aderenti, magari prestigiosi, che esprimano simpatia per l’idea transnazionale e solidarietà con il PRTT, quanto operare in una pluralità di paesi per individuare almeno alcune personalità con capacità e relazioni politiche che siano interessate, disponibili, disposte a costituire insieme ai radicali attuali il nucleo dirigente di questa rinnovata formazione.  E perciò a “inventare” insieme una politica radicale transnazionale, e a cominciare a praticarla, allargando via via il nucleo dirigente, suscitando adesioni sulla base  della condivisione delle azioni politiche intraprese.  Difficile? Difficilissimo. 

 

Molto improbabile riuscirci. Ma – il possibile contro il probabile, ancora – forse non  impossibile, se è vero che l’angoscia per le prospettive cupe che sono aperte davanti a noi è diffusa e profonda. E se possono essere non poche, in questo stato delle cose,  le persone con le qualità adatte che vogliano almeno provare questa strada nuova per un verso, ma per l’altro già aperta dall’opera prestigiosa di Marco Pannella e delle organizzazioni radicali in questi anni, e “garantita” dai successi transnazionali di oltre due decenni.

 

Anche avviare un lavoro di questo tipo, naturalmente, è di estrema difficoltà. Richiede capacità e fantasia politica, richiede la possibilità di utilizzare una rete di conoscenze innanzitutto fuori d’Italia, richiede in chi possa e voglia condurlo credibilità personale e politica.   Fortunatamente, la storia e l’esperienza radicale hanno formato ed espresso non poche personalità che hanno tutti i numeri per dedicarsi a un’opera di questo genere. Ma la gravosità dell’impegno appare tale e così pesante, non potendosi più contare sulle intuizioni,la forza e la capacità di guida di Pannella, che sarebbe auspicabile poter coinvolgere da subito, nella fase di avvio dell’impresa, anche energie  nuove di alta qualità politica: perché non chiedere un impegno diretto di partecipazione dirigente a personalità che hanno dato il loro apporto all’ iniziativa per la transizione allo stato di diritto? ed è impossibile che accetti di assumere un ruolo di primo piano un Adriano Sofri, cui in tanti guardiamo come a un punto di riferimento morale e politico, uno che ha mostrato nella sua vita straordinarie capacità di iniziativa e guida politica, e che ha scritto sul futuro dei radicali la pagina appassionata e fondamentale che citavo all’inizio?

 

O invece, volgendoci non a nuovi ma ad antichi radicali, pensiamo a Emma Bonino: se anche nell’ultima fase c’era stata, per ragioni difficili da discutere qui, una sospensione del suo rapporto personale e politico con Pannella (ma dopo una intera vita politica di cui questo rapporto aveva costituito la stella polare), non sarebbe immaginabile tentare un rilancio del Partito radicale transnazionale rinunciando a chiederle di esserne una protagonista, con le sue eccezionali capacità, con il suo prestigio e le sue relazioni internazionali, con la sua storia, il suo presente e la sua passione di radicale.

 

Il “comitato promotore” (un po’come lo fu quel piccolo nucleo di militanti che di fatto promosse la ricostituzione del PR fra il 1963 e il 1967) dovrebbe certo assumersi il compito di concepire  la necessariamente nuova forma statutaria e organizzativa del partito, tenendo conto dell’esperienza compiuta in questi anni che ha visto impossibile assicurare una normale vita statutaria del partito stesso (Per dirne solo una: non è concepibile per un partito transnazionale necessariamente povero di mezzi fondarsi su un costosissimo congresso a partecipazione personale di tutti gli iscritti provenienti da ogni parte del mondo. Siamo nell’epoca della comunicazione telematica...  E ricordiamo comunque che lo statuto radicale del 1967, idealmente proposto per un grande partito federale della sinistra italiana, prevedeva, come ovvio, il congresso per delegati. Mai praticato, naturalmente, in un partito di poche decine o poche centinaia di persone, e sostituito  dal congresso a partecipazione diretta da norme transitorie poi divenute definitive). Ciò per giungere a un prossimo congresso del partito,  tornato  in effetti transnazionale e non più tale solo sulla carta, ad adottare un’adeguata riforma statutaria. 

 

Contrastare le derive nazional-sovraniste, ricostruire il prestigio dell’idea  federalista europea.                                                                           

 

Ma poi, si dovrebbe accompagnare l’approfondimento giuridico e lo sviluppo politico dell’iniziativa già intrapresa in sede ONU con l’ideazione e l’avvio di qualche iniziativa o  campagna da sviluppare in modo coordinato in più di un paese e tale da rendere evidente, e suggestiva, la funzione del partito transnazionale.  Penso in particolare a battaglie, appunto coordinate su scala transnazionale, che incarnino in modo efficace l’impegno volto a contrastare e a ribaltare le derive nazional-sovraniste e antipolitiche.

 

Un suggerimento, certo limitato,  a solo titolo di esempio. In Italia, ma di sicuro anche altrove, ci si potrebbe battere di nuovo, come un tempo i radicali hanno fatto, per ottenere una misura essenziale per modificare l’idea, e la realtà, di una politica  delle istituzioni europee giocata sopra la testa dei cittadini: che il governo informi preventivamente, in modo tempestivo, il parlamento, e dunque l’opinione pubblica, sui temi e sui termini della trattativa in tanta parte intergovernativa sulla formazione delle norme europee (la cosiddetta “fase ascendente”), e si faccia dare pubblicamente dal parlamento le direttive sulla linea da seguire nella trattativa stessa.

 

Sarebbe un contributo a limitare il “deficit democratico” dell’UE, e dunque ad almeno arginare la crisi dell’Europa nelle coscienze.  Antica battaglia radicale, ricordo, che si scontrava a suo tempo con la  sorda resistenza dei governi, gelosi della riservatezza e dunque segretezza con cui esercitavano senza controllo quella fondamentale funzione legislativa.  Ma oggi la sorte di una simile proposta e battaglia potrebbe  forse – forse – essere diversa:  il governo Renzi in Italia, come altri governi in Europa, ha un interesse vitale a creare nell’opinione pubblica una corrente di nuovo favore e di rinnovata fiducia nell’Unione Europea. L’impegno radicale su questo terreno potrebbe avere oggi non una funzione di  opposizione a un governo  ostile  perché desideroso solo di tutelare il potere incontrollato proprio, o magari del proprio apparato burocratico,  bensì quella di una proposta di intesa su una linea che risponda anche agli interessi  autentici del governo stesso. Proprio  nello stesso senso e spirito con cui Pannella, Bonino e i radicali hanno sollecitato, suscitato e “usato” l’alleanza dei governi italiani sulle battaglie condotte o  da  condurre all’ONU.

 

A ben vedere, poi, questa notazione porta a un’osservazione di ordine politico generale, relativa al caso italiano ma probabilmente estensibile ad altri paesi europei, se noi riuscissimo ad esservi attori politici.  Se è vero, come sono personalmente convinto,  che l’esigenza  immediata, vitale, in una prospettiva italiana ma anche, è lo stesso, federalista europea e di battaglia transnazionale per lo stato di diritto, è quella di contrastare il trionfo possibile dei nazional- sovranismi  antieuropeisti e antipolitici,  dunque in Italia dei grillini, magari in ultimo collegati con Salvini,  allora l’interlocutore necessario per noi diventa in primo luogo Renzi; non foss’altro che per il fatto che oggi l’alternativa si prospetta  fra Renzi e i grillini.  Piaccia o no, le speranze di sopravvivenza  e rilancio di una prospettiva federalista europea  e della stessa  UE passano qui ed ora, in Italia, attraverso il successo di Renzi e del suo governo.

 

Non può essere questo, per ragioni evidenti, materia di decisioni del congresso del partito transnazionale e transpartito. Il quale però può e deve avere con il governo interlocuzione, dialogo e ricerca di intesa, come già c’è per quanto riguarda l’iniziativa all’ONU. Ma è invece tema che riguarda molto l’azione radicale sul piano italiano. Ove, tramontata  comunque l’illusione che in una forma o nell’altra i radicali possano pensare a proporsi come forza elettorale autonoma e concorrente con i partiti maggiori, essi possono invece pensare e aspirare a un ruolo di dialogo, di proposta e di ispirazione di scelte coerenti con la propria storia nell’ambito dello schieramento che contrasta la deriva populista–sovranista.

 

Tutte queste considerazioni, si intende, hanno un senso se vorremo e sapremo dare al congresso il ruolo di un rilancio dell’azione e della battaglia radicale. Se l’esito dovesse essere quello di una frattura tale da paralizzare gli uni e gli altri, non rimarrà probabilmente che da cercare in qualche modo di conservare la memoria di una storia .  Obiettivo, già questo, di grande importanza e rilievo. Ma qui ho inteso pormi nell’ottica di chi vuole vedere le possibilità di una storia che continua. “Siamo uomini d’altri tempi”, diceva Marco: “speriamo futuri”.

 

Adriano Sofri: Che fine fanno i Radicali 

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