Circa un anno fa, commentavamo l’incriminazione dei magistrati Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone ad opera della Procura di Caltanissetta. L’accusa era di aver insabbiato nel 1991-92 l’inchiesta su Mafia e appalti, in quanto essi avrebbero operato in modo tale da condurre all’archiviazione l’indagine che aveva preso le mosse dal dossier dei CC del Ros.
A oltre trent’anni dai fatti contestati gli inquirenti nisseni, partendo dalla riemersione di intercettazioni che la procura di Palermo aveva ordinato di cancellare, rilevavano come l’azione giudiziaria – condotta nella prima fase da Pignatone e Natoli e coordinata dal procuratore capo Pietro Giammanco – fosse stata “solo apparente”, avendo del tutto trascurato i collegamenti con le società del clan di Antonino Buscemi, oggetto invece dell’interesse del pm Augusto Lama di Massa Carrara.
Su Buscemi aveva concentrato l’attenzione Paolo Borsellino, che giudicava l’incartamento relativo a Mafia-appalti di grande importanza ai fini della lotta alla criminalità. Al contrario dei pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, i quali ne richiesero invece l’archiviazione il 13 luglio 1992, appena una settimana prima dell’attentato di via D’Amelio nel quale perse la vita il magistrato amico di Giovanni Falcone.
Ora, proprio Buscemi – referente della società immobiliare che realizzò la compravendita di appartamenti riconducibili alla famiglia di Pignatone e del pm Guido Lo Forte – è citato nella nuova inchiesta aperta dai sostituti di Caltanissetta guidati da Salvo De Luca, che ha per oggetto il depistaggio relativo alle indagini sulla strage di via D’Amelio.
L’ipotesi accusatoria è che l’ex procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, deceduto nel 2017, abbia agito in accordo con circoli massonici interessati a coprire gli affari con le cosche mafiose sin da molto prima del 1992. L’affossamento del dossier Mafia-appalti, come pure l’attività di depistaggio all’indomani dell’attentato a Borsellino (di cui si rese responsabile l’ex capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera) sarebbero, da questo punto di vista, tutti tasselli di un mosaico messo insieme dagli interessi convergenti di mafiosi e logge più o meno occulte della massoneria.
Secondo gli inquirenti, la pista è stata intrapresa grazie a “un’attenta e approfondita rilettura del complessivo materiale probatorio Fabio stratificatosi nei dibattimenti sin qui celebrati”. Il nome di Tinebra era già stato al centro delle cronache quando l’avvocato Piero Amara, nell’ambito delle dichiarazioni fatte alla procura di Milano sul caso ENI condotto dal pm Fabio De Pasquale, l’aveva associato con una loggia massonica denominata Ungheria di cui sarebbero stati componenti professionisti e magistrati. Dichiarazioni che, per la procura di Perugia che se ne occupò, non trovarono conferme.
La procura di Caltanissetta, tuttavia, non indaga sulla presunta loggia Ungheria: l’obiettivo delle perquisizioni ordinate nei luoghi frequentati da Giovanni Tinebra riguarda invece “il contributo fornito da appartenenti ad associazioni massoniche ‘coperte’”, di cui Tinebra sarebbe stato un riferimento secondo quanto riferito da una serie di pentiti, allo scopo di sviare la ricerca dei responsabili della strage di Borsellino e della sua scorta.
Basta questa semplice elencazione per far sorgere l’impressione che le inchieste siciliane abbiano la caratteristica delle scatole cinesi e che si svolgano come una spirale senza fine, destinate a lasciare insoddisfatta la domanda di verità sui fatti tragici di cui si occupano.
Il dubbio è che proprio il loro moltiplicarsi serva piuttosto a interrompere la linearità dei percorsi, per perdersi in labirinti che rischiano di non produrre un effetto chiarificatore, quanto piuttosto un offuscamento dilatorio.