di Domenico Mazza
Nell'agosto del 1976, il dibattito sulla fiducia al governo di Giulio Andreotti fu molto più che un semplice rito parlamentare. In un clima già carico di tensione, il discorso di Andreotti, improntato a un freddo pragmatismo politico, venne messo duramente alla prova da interventi di senatori e deputati, sia della maggioranza che dell'opposizione.
Tra questi, spicca la requisitoria durissima e implacabile di Giorgio Almirante, leader del Movimento Sociale Italiano. Il suo intervento, quasi una resa dei conti, non solo contestò la definizione di "governo di necessità" usata da Andreotti, ma rinfacciò apertamente le passate politiche contro il suo partito, puntando il dito contro un sistema di potere che, a suo dire, aveva manipolato la verità e coperto gravi responsabilità.
La durissima requisitoria di Almirante
“Onorevole Andreotti, lei è ridiventato Presidente del Consiglio dopo alcuni anni e crede di poter usare a questo riguardo il linguaggio del 1972-73 quando - l’aula era piena - si trattava di mandare sotto processo Giorgio Almirante. Lei allora venne in aula, scrisse financo una lettera al direttivo del gruppo della democrazia cristiana per invitare tutti i suoi deputati a votare a favore della concessione dell’autorizzazione a procedere nei miei confronti. Anch’io votai a favore. come lei ricorda probabilmente, perché ritenevo giusto ed utile poter essere giudicato dalla magistratura in ordine al gravissimo reato imputatomi: si trattava di un reato di opinione, di pensiero e di organizzazione, è vero, ma pur sempre in relazione ad una opinione e ad un pensiero (si potrebbe perfino dire, io credo legittimamente, ad una idea). Ebbene, io credevo giusto ed utile che la magistratura mi giudicasse”.
Questo estratto fa parte del lunghissimo discorso che Giorgio Almirante tenne alla Camera dei Deputati, nell'agosto del 1976, contro il neo premier Giulio Andreotti. Segnò l'apice di uno scontro tra Democrazia Cristiana e Movimento Sociale Italiano, un conflitto iniziato nei primi anni Settanta e forse mai del tutto risolto. Tuttavia, il dibattito non convinse Marco Pannella, che più volte interruppe il leader missino, accusandolo di essere complice delle "trame di palazzo" della stessa Democrazia Cristiana.
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Un passato che non si cancella
Almirante non perse tempo e andò subito al sodo, accusando Andreotti di ipocrisia. "Lei è ridiventato Presidente del Consiglio e crede di poter usare il linguaggio del 1972-73", disse, ricordando con precisione il momento in cui Andreotti, allora pieno di potere, aveva spinto affinché Almirante fosse processato.
Il leader del MSI rinfacciò a Andreotti la sua lettera al direttivo della Democrazia Cristiana, in cui invitava i deputati a votare per l'autorizzazione a procedere contro di lui. Almirante, tuttavia, dichiarò di aver votato a favore di quel processo perché, per quanto si trattasse di un "reato di opinione", era convinto fosse giusto e utile essere giudicato dalla magistratura.
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Le vere "trame nere”
Il discorso di Almirante si fece sempre più serrato, accusando Andreotti di essere parte di un sistema che aveva rovesciato o indebolito figure scomode come Segni, De Lorenzo e Miceli, suggerendo che lo stesso Andreotti avesse avuto un ruolo in queste manovre.
Ma il colpo più duro arrivò quando Almirante rivelò ciò che riteneva fosse un inquietante complotto, emerso solo grazie all'inchiesta del sostituto procuratore Giovanni Arcai sulla strage di Brescia. Il leader missino svelò che l'allora ministro dell'Interno Taviani aveva inviato un agente provocatore a Brescia. Quest'individuo, un democristiano di Sampierdarena, avrebbe fornito esplosivo a giovani della destra extraparlamentare per poi farli arrestare.
Ma c'è di più. Almirante affermò che questo agente era in contatto con un certo Orlando, un socialdemocratico e braccio destro di Fumagalli, capo del Movimento di Azione Rivoluzionaria (MAR), noto "antifascista". Secondo Almirante, i due avevano pianificato una strage a Milano, in Piazza del Duomo, per il 10 maggio 1974, con l'obiettivo di scatenare un caos tale da far credere che missini e comunisti si stessero scontrando, giustificando così un intervento autoritario.
Almirante sottolineò che, se un tempo queste accuse gli sarebbero valse l'etichetta di "provocatore", ora erano supportate dalle prove di un giudice. Per questo, ammonì Andreotti a essere più prudente prima di accusare il MSI di "trame nere”.
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La richiesta di spiegazioni
Almirante concluse la sua requisitoria con una domanda diretta ad Andreotti. Come poteva, un uomo diventato Presidente del Consiglio con l'appoggio delle sinistre, continuare ad attaccare il MSI, accusandolo di trame eversive?
Per rafforzare la sua accusa, Almirante citò un articolo del giornale “Il Manifesto” che riguardava Lattanzio, ex sottosegretario alla Difesa. L'articolo rivelava che Lattanzio aveva utilizzato mezzi e uomini dell'esercito per la sua campagna elettorale. Almirante sottolineò un dettaglio cruciale: Lattanzio aveva ricoperto il ruolo di sottosegretario alla Difesa proprio durante il periodo delle presunte "trame nere" e aveva la supervisione del Servizio Informazioni Difesa (SID).
Almirante concluse il suo intervento chiedendo a Andreotti di fornire spiegazioni non solo a lui, ma anche a sé stesso.
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In sintesi, il discorso di Almirante fu un vero e proprio atto d'accusa: le "trame nere" non erano un'esclusiva del MSI, ma venivano orchestrate e coperte proprio dalle sfere più alte del potere democristiano. Un'accusa che metteva in discussione l'intera narrazione ufficiale dell’epoca…