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17/05/24

Nasce LIREC, il Centro Studi sulla Libertà di Religione, Credo e Coscienza


Categoria: STILE LIBERO
Pubblicato Venerdì, 22 Settembre 2017 10:07

di Camillo Maffia

 

È nato il Centro Studi per la Libertà di Religione, Credo e Coscienza (LIREC), primo in Italia, appena fondato dalla direttrice Raffaella Di Marzio con il contributo del presidente onorario Pietro Nocita, della segretaria amministrativa Isa Calabrese e di chi scrive.

 

L'associazione può già contare su un valido comitato scientifico, attualmente composto dalla segretaria dell'AIDLR Dora Bognandi, il direttore di Coscienza e libertà Davide Romano, il direttore di Confronti Claudio Paravati, il responsabile comunicazioni ISKCON Mauro Bombieri, l'Imam Ataul Wasih Tariq, il responsabile relazioni esterne di Ananda Paolo Narya Tosetto e l'esponente di Damanhur Silvio Palombo.

 

Base costitutiva dell'associazione sono le linee-guida del programma FORB emanato dal Consiglio dell’Unione Europea (EU Guidelines on the promotion and protection of Freedom of Religion or Belief) nel giugno 2013, nonché le raccomandazioni ricevute dallo Stato italiano in sede OSCE/ODIHR nel 2013 e 2014, in merito al rispetto della libertà di religione, credo e coscienza. Ma che significa concretamente rispettare la libertà di religione, credo e coscienza?

 

Si è discusso per anni sulla necessità di creare una definizione di gruppo religioso, movimento religioso, perfino di setta; e lo si è fatto senza capire che prima di poter definire questo o quel gruppo bisogna essere capaci di definire il religioso, la situazione religiosa, oseremmo dire lo stato d'animo religioso per poi valutare ogni sua declinazione. Quindi bisognerebbe cercare, vista la varietà del panorama spirituale contemporaneo, una definizione che sia più ampia possibile.

 

Con una provocazione diremo che qualunque soggetto che si sia spogliato della sua personalità esteriore e del suo ruolo sociale per trovarsi in una condizione di semplice pensiero in rapporto all'esistenza è già in una situazione religiosa, perfino se è ateo. E in qualunque modo il suo pensiero si sviluppi a partire da quella situazione ha il diritto costituzionale di esprimerlo, regolando la sua vita di conseguenza nella misura in cui non danneggia il suo prossimo.

 

Questo ci è utile a comprendere meglio il problema fondamentale: la libertà di religione, credo e coscienza, ovvero il diritto a non essere discriminati in base alla propria confessione è il solo diritto umano che non muove dall'esteriorità, ma dall'interiorità – e quindi è più difficile tutelarlo. Il sesso, il colore della pelle, l'etnia, la lingua sono tutti attributi esterni al soggetto che si riflettono sulla sua interiorità; ma la religione fa il suo ingresso con un movimento opposto, che è sempre dall'interiorità all'esteriorità.

 

Ciascuno prima crede e poi di conseguenza si veste, mangia, parla, va in piscina, ama etc. Perciò è chiaro che per tutelare questa condizione lo Stato non dev'essere più religioso possibile, ma più laico possibile se vuole difendere tutte le interiorità dei soggetti senza distinzione (laddove per “laico” non s'intende certo che debba azzerare la Chiesa, ma rifiutarla in quanto potere per valorizzarla come risorsa). Superfluo qui ricordare come Marco Pannella, a questo proposito, parlasse della necessità di difendere le religiosità, combattendo i clericalismi.

 


 

Come difendere oggi le religiosità contro i clericalismi? È un bel problema. La normativa è completamente insufficiente: oltre alla mancata applicazione del dettato costituzionale, al punto che è ancora parzialmente in vigore la legislazione di epoca fascista, vi è il ruolo da protagonista assoluto svolto dal Ministero dell'Interno nei rapporti dello Stato con le confessioni che vivono al di fuori del regime concordatario, cioè tutte fuorché la cattolica; e la cattolica stessa è in una relazione che si fonda molto sul Concordato e poco su quei principi di libertà religiosa e dialogo interreligioso sanciti dalla Costituzione, ma difesi anche da quel Concilio Vaticano II che potrebbe trovare maggiori margini di applicazione in un Paese che volesse realmente lavorare per la convivenza pacifica, l'incontro e la coesione sociale anche per quanto riguarda l'aspetto religioso della vita dei cittadini.

 

Le recenti proposte di legge per la difesa della libertà religiosa, ovviamente da sostenere in linea di principio per i moventi e la buona fede da cui evidentemente nascono, hanno tutte il limite di conservare questo ruolo di primo piano dell'Interno nella disciplina del religioso: ma l'Interno, per tornare a quanto notavamo inizialmente, è certamente il Ministero deputato alla tutela della sicurezza, ma non a quella dell'uguaglianza – e tanto meno alle pari opportunità per ciò che concerne l'interiorità dei singoli.

 

E però d'altro canto, se le esperienze passate insegnano qualcosa, dalle vicende legate ai rom e alla immigrazione abbiamo già visto cosa accade quando s'immagina una strategia che abbia come perno o come punto di riferimento quello che un tempo si chiamava Ministero delle pari opportunità. Quel che è certo è che non si può, in ogni caso, giocare la partita investendo questo o quel ministero del compito di affrontare un problema dalle molteplici sfaccettature; e lasciarlo nelle mani dell'Interno significa guardare ad esso come a un problema di sicurezza e basta, mentre invece bisognerebbe andar oltre.

 

Perciò ogni proposta, benché nata dalle migliori intenzioni, che individui nell'Interno il soggetto preposto alla disciplina delle confessioni sul territorio rischia di creare più problemi di quanti non ne risolva, perché certifica la situazione attuale e quindi dal punto di vista giuridico è quasi meglio non avere nessuna legge, in quanto su qualsivoglia provvedimento prevale sempre e comunque la libertà sancita dalla Costituzione; di modo che qualora qualcuno fosse perseguito ingiustamente per motivi religiosi o discriminato da una normativa (vedi la saga delle “leggi anti-moschee” di matrice leghista) potrebbe sempre appellarsi alla Carta, senza rischiare d'imbattersi in un veto dell'Interno contro il quale ci sarebbe ben poco da fare qualora fosse inquadrabile nell'ambito di un'apposita legge varata dal Parlamento.

 

Ma la necessità di un approccio interministeriale alla libertà di religione e credo è data in ogni caso dalla molteplicità delle problematiche che chiama in causa: questioni sociali, di sicurezza, di edilizia, culturali etc. Non tutti sanno che l'Italia ha preso l'impegno in sede europea, sottoscrivendo le linee-guida del programma FORB, di tutelare la libertà di religione, credo e coscienza, e difficilmente potrà farlo senza un progetto di tipo collegiale, che oltre al dialogo fra i ministeri chiami in causa anche i rapporti con le regioni e i comuni.

 

Chiunque può comprendere come si otterrebbe ben poco se, quand'anche i ministeri si mettessero d'accordo sulla elaborazione di un percorso poniamo con le comunità islamiche, i comuni nel frattempo continuassero a vietare o a chiudere le moschee, come accade attualmente. Ecco quindi che senza un approccio realmente collegiale non è possibile difendere un diritto a qualcosa che noi non vediamo, ma di cui scorgiamo unicamente alcune manifestazioni, spesso fraintese o fraintendibili; bisogna considerare che se questo diritto, a differenza degli altri, nasce dall'interiorità, allora è prima di tutto soggettivo e diviene oggettivo come semplice conseguenza.

 


 

È chiaro che se è così si tratta non tanto di tutelare questo o quel gruppo, ma ciascun individuo: gli accordi con i gruppi vengono dopo, perché non è nel gruppo che troviamo il diritto che vogliamo difendere, bensì nel singolo. Perciò l'approccio attuale, che tende a “contrattare” con questo o quell'altro gruppo secondo le inclinazioni del governo in carica, è evidentemente catastrofico: benché la Costituzione preveda apposite intese con le minoranze religiose, resta il fatto che in linea di principio ciò che la Costituzione, la Carta europea e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo sanciscono non riguarda direttamente un determinato gruppo di persone, come può esserlo un popolo o una minoranza; ma è rivolto anzitutto all'individuo – e se non si tutela l'individuo non si può neppure lontanamente pensare di tutelare il gruppo.

 

Se parliamo del diritto a non essere discriminati in base al genere, questo è più che visibile – ci vuol poco a controllare se stiamo parlando con un uomo o con una donna; lo stesso vale, come vedevamo, per l'etnia o la lingua; ma il credo e la coscienza sono invisibili, celati nella interiorità del soggetto. Il che dimostra come non sia pensabile una difesa della libertà religiosa senza la difesa del pensiero critico.

 

Non c'interesserebbe affatto se il Ministero dell'Interno volesse realmente stringere accordi con (o sia pure proporre al governo il riconoscimento di) ciascuna delle centinaia di minoranze religiose presenti sul territorio, perché impiegherebbe centinaia di anni, al termine dei quali ne saranno probabilmente nate altre centinaia di migliaia, e non ci saremmo mossi di un solo passo nella difesa della libertà di religione, credo e coscienza.

 

Ciò di cui invece abbiamo un disperato bisogno in Italia è una tutela della libertà di coscienza – e quindi dell'analisi critica. La lotta a ogni forma di fondamentalismo si fa con l'istruzione e con l'informazione, che sono i soli due strumenti che possano tutelare in modo effettivo un diritto umano interiormente soggettivo. In questo, la battaglia che abbiamo condotto su queste pagine non contro, ma per i media sempre su questo argomento era interamente volta all'apertura di un dibattito mediante l'analisi critica; in quest'ottica le nostre provocazioni sono state necessarie a scardinare l'assordante silenzio che regnava su alcuni lati di questa tematica e che oggi possiamo dire sia stato definitivamente rotto.

 

Perché l'unico argomento di cui si parla quando si tira in ballo la libertà di credo non può essere l'abuso o il fondamentalismo: il che non significa che il problema non sussista, ma non lo si risolve né tenendo tutte le confessioni acattoliche sotto la stretta egida dell'Interno né, come vorrebbe qualcuno, istituendo leggi speciali.

 

La lotta al fondamentalismo si fa con la cultura e l'informazione. Un appassionato di Immanuel Kant non può essere indottrinato alla jihad: sfidiamo chiunque a negarlo, specialmente qualora a detto appassionato fosse particolarmente caro l'immortale “La religione entro i limiti della sola ragione”. Il che non impedisce a chi ha un pensiero critico di vivere una esperienza religiosa autentica: Edith Stein è andata al martirio partendo dalla fenomenologia di Husserl e rimane un cardine del pensiero del XX secolo, per non parlare dell'intensità della fede di Cornelio Fabro, il quale è stato il più grande pensatore religioso del secondo Novecento e lo dimostra proprio il fatto che quasi nessuno se ne sia accorto.

 


 

Quello che ci preme evidenziare qui è che due obiettivi apparentemente in conflitto, ovvero combattere l'estremismo e tutelare questo diritto umano, si raggiungono con il medesimo strumento: promuovendo il dialogo, l'istruzione, l'informazione e la conoscenza.

 

Questi sono i quattro punti cardinali di un possibile piano attuativo del programma FORB e i presupposti per quel cambiamento normativo di cui c'è disperatamente bisogno: l'eterogeneità di tali strumenti rivela ancora una volta la necessità di un approccio che sia più aperto e collegiale possibile.

 

Ostinarsi nel proclamare di voler prendere accordi con questo o quell'ente religioso, com'è accaduto recentemente col “Patto di responsabilità” ideato appunto dall'Interno con alcune associazioni islamiche, significa non aver capito nulla; perché non si tratta qui di tutelare le prerogative esteriori di un ente oggettivo, ma quelle interiori di un soggetto esistente e per far questo bisogna cambiare la normativa, visto che il soggetto esistente in quanto tale non è attualmente libero di decidere come porre fine alla sua esistenza, figuriamoci come esistere!

 

Ci auguriamo perciò che il Centro rimanga fedele, oltre che alle linee-guida del citato programma FORB, al suo spirito d'indipendenza da ogni gruppo religioso sul territorio, affinché possa essere realmente al servizio dell'individuo, che custodisce la sua fede come “un tesoro in vasi di creta” e soltanto lui sa se ce l'ha oppure no: la Costituzione vede giustamente un diritto inalienabile in questo fragile tesoro, e ogni rapporto dello Stato con gruppi, movimenti, istituzioni, enti, chiese e associazioni ha significato solo nella misura in cui è volto a tutelarlo.

 

Al di fuori di questo vi è il clericalismo, che è il nemico giurato tanto della laicità quanto di ogni forma autentica di religiosità: speriamo che il nostro impegno possa essere utile a quella difesa delle religiosità contro ogni forma di clericalismo di cui i laici continuano ad avere una disperata necessità, ma mai quanto i credenti.

 

 

(foto di Gianni Carbotti)

 

 



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