La rilettura gitana di “Molto Rumore per Nulla”, dal punto di vista di chi s’interroga sulla sorte della minoranza Rom in un paese che ne viola sistematicamente i diritti, è una doppia vittoria di Giancarlo Sepe. In primis, il ribadimento culturale dell’attualità del linguaggio teatrale e di quello shakespeariano, in modo particolare, trasmesso a un pubblico zeppo di giovani e giovanissimi che ridono e si entusiasmano nel seguire le vicende così vicine alla loro età, benché lontane nel tempo.
In secondo luogo, una volta tanto assistiamo a un affresco entusiasta della magia dell’immaginario Rom, dipinto con tinte sfavillanti e penetranti, forse persino troppo accese, ma mai troppo in un contesto socio-culturale che tende costantemente a tratteggiarle con cattivo gusto, diffamazione e malafede.
La narrativa fiabesca dei costumi e dell’allestimento è infatti il fermo immagine di un mondo Rom atemporale quanto i testi di Shakespeare, ed entrambi i poli riescono, proprio nella loro atemporalità, ad essere più attuali dei cattivi stereotipi a cui siamo abituati ad assistere nella gitanofobia dilagante di media e politica, che sembrano prepotentemente ancorati a periodi storici da cui l’Italia non si è mai emancipata del tutto.
Ed è proprio questo immaginario che risulta, a quanto sembra, così accattivante per la platea: una prova del fatto che il razzismo è figlio della comunicazione, del modo in cui i caratteri fondamentali e perfino gli stereotipi di un’etnia vengono trasmessi sul piano mediatico e culturale facendo, è il caso di dire, “molto rumore per nulla” ogni qual volta un Rom commette un reato, e tacendo la realtà orribile di bambini che disegnano sui fogli dell’asilo, con i loro pennarelli, mostruose ruspe che si abbattono sulle loro case, quando non lamentano le esalazioni di gas, come i bambini del “villaggio della solidarietà” (oltre al danno la beffa) di via di Salone, costretti a vivere nell’indifferenza dell’amministrazione in prossimità di un deposito Gpl, in mezzo ai topi e ai rifiuti bruciati.
L’entusiasmo con cui viene accolta la commedia non si deve solo, come erroneamente si potrebbe credere, al gusto originale o alla curiosità per l’insolito che ne caratterizzano indubbiamente l’allestimento, ma anche e soprattutto alla presenza in scena di un mondo che, nonostante la propaganda, conserva ancora quel volto romantico che ha influenzato le radici stesse della civiltà europea.
L’accanimento con cui alcune forze politiche e buona parte dei media generalisti continuano in questi giorni ad accostare volutamente Rom e criminalità, per giustificare autentiche azioni criminali come gli sgomberi indiscriminati che si abbattono sulle famiglie inermi nella sistematica violazione dei diritti umani che è ormai l’unico tratto distintivo delle politiche d’inclusione dei Rom nel nostro paese e nella città di Roma in modo particolare, non basta a cancellare quella sorta di amore represso che esonda ogni qual volta incontra un artista capace di suscitarlo.
Basta scorrere il rapporto dell’Osservatorio 21 Luglio presentato pochi mesi fa per vedere una logica goebbelsiana nella rappresentazione politico-mediatica di questa minoranza: eppure, la stessa bugia ripetuta più volte in questo caso non è sufficiente ad annientare i sentimenti profondi che legano i cittadini italiani a una cultura senza la quale alcune forme espressive tipiche della nostra identità non esisterebbero neppure. Così, alla bruttezza del linguaggio populista, ci pensa il linguaggio del teatro a ribellarsi e a esprimere questo indissolubile legame in modo coinvolgente e convincente.
Certo, qualcuno potrebbe storcere il naso davanti alla rappresentazione un po’ stereotipata del campo in cui Claudio si strugge di gelosia per Ero, una realtà molto, troppo distante dalla reale condizione in cui i Rom sono costretti a vivere a causa delle politiche di segregazione razziale a cui sono stati ininterrottamente sottoposti dal regime fascista e da quello partitocratico. Ma è proprio attraverso un’analoga semplicità dell’utilizzo delle icone che il mondo dello spettacolo giocò, negli anni Trenta, un ruolo fondamentale nell’integrazione degli italiani in America, all’epoca minoranza stigmatizzata a loro volta.
Straordinaria Francesca Inaudi nell’inquieta irrequietezza con cui riesce a rendere i tormenti di una delle prime figure di donna moderne, quella Beatrice che proprio non vuole saperne di sposarsi e che alla fine cede alle tentazioni dell’amore, ma senza rinunciare a un ultimo, incalzante battibecco con Benedetto, interpretato con altrettanta bravura da Giovanni Scifoni.
Tutti gli attori offrono un grande contributo alla già di per sé caleidoscopica rappresentazione: da segnalare, fra gli altri, l’imperdibile Leandro Amato nel ruolo di Borraccio. Nonostante l’originalità della messinscena, chi ama i tratti tipici dello stile di Sepe non rimarrà deluso nel ritrovare i caratteri distintivi della sfrenata e caotica alternanza di dialetti, balli e costumi tanto più vivaci in un testo che si presta volentieri a una lettura animata e sarabandesca.
Nell’insieme, lo spettacolo riesce, grazie alla sapienza della regia e alla capacità degli attori di innestare il meccanismo d’identificazione nel testo antico in un pubblico moderno, attraverso una recitazione spontanea e accattivante che, insieme alla semplicità dello scenario, ricorda proprio quella essenzialità che, se da un lato è caratteristica del teatro elisabettiano, dall’altro è tratto tipico delle forme culturali e dell’immaginario Rom, una volta tanto evocato non per spaventare i gagè, ma per farli sognare.
Camillo Maffia, Gianni Carbotti
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Francesca Inaudi
Giovanni Scifoni
MOLTO RUMORE PER NULLA
di William Shakespeare
traduzione e adattamento di Giancarlo Sepe
con Pino Tufillaro, Daniele Monterosi,
Lucia Bianchi, Mauro Bernardi, Daniele Pilli,
Valentina Gristina, Claudia Tosoni,
Camillo Ventola, Fabio Angeloni
e con Leandro Amato nel ruolo di Borraccio
regia Giancarlo Sepe
produzione Francesco Bellomo
Teatro Eliseo / Roma
8 | 26 gennaio 2014